Il Sud non sarà un paese per giovani
Non sono consuete analisi
economiche sull’economia meridionale che guardino al lungo periodo. La crisi,
con le sue emergenze, impone quasi sempre uno sguardo corto, su situazioni
aziendali improvvisamente critiche, scadenze di bilancio, disagi che richiedono
interventi urgenti sia pure a carattere provvisorio. Se, per una volta, si
abbandonasse l’ottica del breve periodo e si guardasse all’andamento di alcuni
cicli socio-economici, da qui agli anni a venire, comprenderemmo come la
generazione 2.0 (i ventenni di oggi, insomma) si troverà a vivere in un
Mezzogiorno con caratteristiche assai diverse, nel riferimento ad alcuni
parametri, rispetto a quello di oggi. A meno che non intervengano,
imprevedibili, al momento, inversioni di tendenza. Proiettiamoci in un futuro
prossimo con l’occhio a tre fenomeni: il saldo demografico del Sud, la
migrazione dal Sud al Nord, le condizioni di povertà nel Mezzogiorno.
Dunque, come può leggersi
in un recente documento presentato dalla Svimez, nel silenzio generale,
l’Italia sta cambiando geografia per effetto del calo delle nascite, i minori
rientri in età fertile, gli spostamenti delle componenti più dinamiche, giovani
e qualificate verso il Nord. Dal 2012 al 2065, è previsto un calo di 4,2
milioni di persone nel Sud a fronte di un aumento di 4,5 nel Centro-Nord. In
altri termini, la popolazione del Mezzogiorno sul totale nazionale crollerà
dall’attuale 34% al 27,3%, da circa un terzo ad un quarto. La perdita di
popolazione interesserà, da qui al 2065, tutte le classi di età più giovane del
paese, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una
sorta di “rovesciamento” rispetto a quella del Centro-Nord. Oggi, nel
Mezzogiorno ci sono quattro milioni circa di giovani tra i 15 ed i 29 anni; nel
2065 saranno due milioni. Si pensi agli effetti che questa “desertificazione”
provocherà, per esempio, sul sistema formativo, su quello sanitario e sul
mercato del lavoro: in assenza di misure specifiche rivolte all’incremento demografico
il Mezzogiorno dei prossimi decenni sarà fortemente decimato nella sua
componente più vitale, prolifica e produttiva.
Passiamo al fenomeno
della migrazione dal Mezzogiorno verso il Centro-Sud. Che ha interessato in
dieci anni, dal 2001 al 2011, un milione e trecentomila persone di cui 172 mila
laureati. Questi ultimi, nel 2000, erano il 10,7 % del totale di quanti si
trasferivano al Centro-Nord. Dieci anni dopo, nel 2011, sono più che
raddoppiati, salendo al 25%. In più, nel periodo in esame, sono emigrati
all’estero 100 mila meridionali, di cui 20 mila laureati.
Resta da accennare alla
condizione di povertà: il 14,1 % delle famig1ie meridionali (contro il 5,1%)
del Centro-Nord vive con meno di mille euro al mese. In Sicilia il 29,6% delle
famiglie. Il che rimanda ad un’economia di sussistenza fondata su forme di
lavoro sommerso, illegale, informale. Oltre che ad un accesso a misure di
welfare che spesso si prestano a sprechi e truffe. In sostanza, esiste nel
Mezzogiorno una condizione di povertà strutturale che va aggravandosi anno dopo
anno, in parallelo all’estendersi di un’economia “canaglia” di sopravvivenza.
Riassumiamo: calo
demografico, emigrazione, povertà. Il perdurare di queste tendenze trasforma il
Mezzogiorno, ne cambia i connotati produttivi, ne impoverisce capitale umano e
infrange coesione e solidarietà.
Riportiamoci al presente
per annotare un divario sugli effetti tra Nord e Sud dovuto alle manovre di
correzione del bilancio che si sono succedute dal 2010 al 2013. Nel complesso
l’onere di risanamento sopportato dal Centro-Nord oscilla tra il 70% ed il 72%
di quello complessivo. Valutato in termini di Pil territoriale, il carico della
manovra presenta caratteristiche differenti. Considerando l’aumento delle
entrate e la diminuzione della spesa tra il 2012 ed il 2014 può valutarsi
un’incidenza del Pil complessivo del 6,5%. Disaggregandola, può constatarsi
come il peso a carico del Centro-Nord sia pari al 6% circa del Pil e quello a
carico del Mezzogiorno si avvicini al 9% (elaborazioni Svimez su documenti
ufficiali). Incidono su questo divario, in particolare, i tagli della spesa in
conto capitale: una misura particolarmente penalizzante per il Sud poiché gli
investimenti pubblici hanno nell’area un impatto molto forte.
Queste drammatiche previsioni
nel medio-lungo periodo assumono toni ancora più foschi con lo sguardo al
presente. Il Mezzogiorno sta vivendo la crisi in misura maggiore che nel resto
del paese. Prendiamo i dati dei 2012: le stime ci dicono che il PIL italiano
diminuirà del 2,4%. Quello del Centro-Nord del 2,1%, e quello del Mezzogiorno
del 3,2%. La crisi, in sostanza, non cristallizza i divari territoriali,
piuttosto li aggrava. Negli ultimi dieci anni (2001-2012) il Pil del
Mezzogiorno ha registrato un calo del 3,8% decisamente distante dal Centro-Nord
(3,3%), a testimonianza del perdurante divario di sviluppo tra le due aree. Ma
la dinamica diviene ancora più pesante se ci si limita ad osservare, nel ciclo
della crisi, gli ultimi quattro anni, dal 2008 al 2012: il Mezzogiorno ha perso
oltre il 10% del Pil, quasi il doppio dei Centro-Nord (5,8%).
Tre osservazioni a
commento: il Mezzogiorno risulta penalizzato dal ciclo economico sia con
riferimento all’ultimo decennio sia con riferimento agli anni futuri. Non è
assolutamente possibile fronteggiare questa recessione strutturale a livello
regionale, ma sul futuro non è possibile
pronosticare né consapevolezza né reazione.
Si snoda in questi giorni
un film nel quale ogni protagonista ritiene di mettere in salvo il bottino
accumulato, disinteressandosi dei bene comune e piuttosto teso ad assicurarsi
un benessere intra-generazionale. Senza un cambiamento di sistema, che oggi non
si intravede, questa egoistica ispirazione potrebbe risultare inutilmente
coltivata. E tra qualche decennio il Sud non sarà più un paese per giovani.
Mario
Centorrino
Piero David