domenica 20 ottobre 2013

Il Sud non sarà un paese per giovani


Non sono consuete analisi economiche sull’economia meridionale che guardino al lungo periodo. La crisi, con le sue emergenze, impone quasi sempre uno sguardo corto, su situazioni aziendali improvvisamente critiche, scadenze di bilancio, disagi che richiedono interventi urgenti sia pure a carattere provvisorio. Se, per una volta, si abbandonasse l’ottica del breve periodo e si guardasse all’andamento di alcuni cicli socio-economici, da qui agli anni a venire, comprenderemmo come la generazione 2.0 (i ventenni di oggi, insomma) si troverà a vivere in un Mezzogiorno con caratteristiche assai diverse, nel riferimento ad alcuni parametri, rispetto a quello di oggi. A meno che non intervengano, imprevedibili, al momento, inversioni di tendenza. Proiettiamoci in un futuro prossimo con l’occhio a tre fenomeni: il saldo demografico del Sud, la migrazione dal Sud al Nord, le condizioni di povertà nel Mezzogiorno.
Dunque, come può leggersi in un recente documento presentato dalla Svimez, nel silenzio generale, l’Italia sta cambiando geografia per effetto del calo delle nascite, i minori rientri in età fertile, gli spostamenti delle componenti più dinamiche, giovani e qualificate verso il Nord. Dal 2012 al 2065, è previsto un calo di 4,2 milioni di persone nel Sud a fronte di un aumento di 4,5 nel Centro-Nord. In altri termini, la popolazione del Mezzogiorno sul totale nazionale crollerà dall’attuale 34% al 27,3%, da circa un terzo ad un quarto. La perdita di popolazione interesserà, da qui al 2065, tutte le classi di età più giovane del paese, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di “rovesciamento” rispetto a quella del Centro-Nord. Oggi, nel Mezzogiorno ci sono quattro milioni circa di giovani tra i 15 ed i 29 anni; nel 2065 saranno due milioni. Si pensi agli effetti che questa “desertificazione” provocherà, per esempio, sul sistema formativo, su quello sanitario e sul mercato del lavoro: in assenza di misure specifiche rivolte all’incremento demografico il Mezzogiorno dei prossimi decenni sarà fortemente decimato nella sua componente più vitale, prolifica e produttiva.
Passiamo al fenomeno della migrazione dal Mezzogiorno verso il Centro-Sud. Che ha interessato in dieci anni, dal 2001 al 2011, un milione e trecentomila persone di cui 172 mila laureati. Questi ultimi, nel 2000, erano il 10,7 % del totale di quanti si trasferivano al Centro-Nord. Dieci anni dopo, nel 2011, sono più che raddoppiati, salendo al 25%. In più, nel periodo in esame, sono emigrati all’estero 100 mila meridionali, di cui 20 mila laureati.
Resta da accennare alla condizione di povertà: il 14,1 % delle famig1ie meridionali (contro il 5,1%) del Centro-Nord vive con meno di mille euro al mese. In Sicilia il 29,6% delle famiglie. Il che rimanda ad un’economia di sussistenza fondata su forme di lavoro sommerso, illegale, informale. Oltre che ad un accesso a misure di welfare che spesso si prestano a sprechi e truffe. In sostanza, esiste nel Mezzogiorno una condizione di povertà strutturale che va aggravandosi anno dopo anno, in parallelo all’estendersi di un’economia “canaglia” di sopravvivenza.
Riassumiamo: calo demografico, emigrazione, povertà. Il perdurare di queste tendenze trasforma il Mezzogiorno, ne cambia i connotati produttivi, ne impoverisce capitale umano e infrange coesione e solidarietà.
Riportiamoci al presente per annotare un divario sugli effetti tra Nord e Sud dovuto alle manovre di correzione del bilancio che si sono succedute dal 2010 al 2013. Nel complesso l’onere di risanamento sopportato dal Centro-Nord oscilla tra il 70% ed il 72% di quello complessivo. Valutato in termini di Pil territoriale, il carico della manovra presenta caratteristiche differenti. Considerando l’aumento delle entrate e la diminuzione della spesa tra il 2012 ed il 2014 può valutarsi un’incidenza del Pil complessivo del 6,5%. Disaggregandola, può constatarsi come il peso a carico del Centro-Nord sia pari al 6% circa del Pil e quello a carico del Mezzogiorno si avvicini al 9% (elaborazioni Svimez su documenti ufficiali). Incidono su questo divario, in particolare, i tagli della spesa in conto capitale: una misura particolarmente penalizzante per il Sud poiché gli investimenti pubblici hanno nell’area un impatto molto forte.

Queste drammatiche previsioni nel medio-lungo periodo assumono toni ancora più foschi con lo sguardo al presente. Il Mezzogiorno sta vivendo la crisi in misura maggiore che nel resto del paese. Prendiamo i dati dei 2012: le stime ci dicono che il PIL italiano diminuirà del 2,4%. Quello del Centro-Nord del 2,1%, e quello del Mezzogiorno del 3,2%. La crisi, in sostanza, non cristallizza i divari territoriali, piuttosto li aggrava. Negli ultimi dieci anni (2001-2012) il Pil del Mezzogiorno ha registrato un calo del 3,8% decisamente distante dal Centro-Nord (3,3%), a testimonianza del perdurante divario di sviluppo tra le due aree. Ma la dinamica diviene ancora più pesante se ci si limita ad osservare, nel ciclo della crisi, gli ultimi quattro anni, dal 2008 al 2012: il Mezzogiorno ha perso oltre il 10% del Pil, quasi il doppio dei Centro-Nord (5,8%).
Tre osservazioni a commento: il Mezzogiorno risulta penalizzato dal ciclo economico sia con riferimento all’ultimo decennio sia con riferimento agli anni futuri. Non è assolutamente possibile fronteggiare questa recessione strutturale a livello regionale, ma sul futuro non  è possibile pronosticare né consapevolezza né reazione.
Si snoda in questi giorni un film nel quale ogni protagonista ritiene di mettere in salvo il bottino accumulato, disinteressandosi dei bene comune e piuttosto teso ad assicurarsi un benessere intra-generazionale. Senza un cambiamento di sistema, che oggi non si intravede, questa egoistica ispirazione potrebbe risultare inutilmente coltivata. E tra qualche decennio il Sud non sarà più un paese per giovani.

Mario Centorrino

Piero David

sabato 19 ottobre 2013


Politica in Movimento



Partiti e movimenti nella crisi della politica

La crisi della politica, la trasformazione del mercato del lavoro, l’innovazione delle forme di comunicazione ha prodotto nei territori la liquefazione delle forme politiche. I nuovi soggetti sociali (precari, disoccupati qualificati, esodati) non si riconoscono più nelle strutture rappresentative tradizionali (sindacati e partiti), ma percepiscono come soggetti politici di cambiamento i movimenti e le associazioni, agenti meno burocratici e più efficaci mediaticamente, che negli ultimi anni hanno occupato di fatto spazi politici fino a qualche tempo fa riservati solo ai partiti. Il PD non deve considerare tali espressioni della società come partiti politici ai quali contrapporsi. Deve, invece, costruire luoghi di dialogo permanente con i movimenti con i quali si condividono valori di base e finalità, per cercare di coglierne gli aspetti più innovativi e limitarne le forme più estreme, cercando di affermarsi con autorevolezza come riferimento politico ed istituzionale.

E' importante, soprattutto nella fase congressuale del Partito Democratico, approfondire le ragioni che hanno portato, soprattutto nell'ultimo anno, i movimenti politici a risultati elettorali molto importanti.
A Messina, un candidato pacifista e movimentista come Renato Accorinti, è riuscito in pochi mesi a condurre alla vittoria un movimento che, senza strutture partitiche di rilievo, deputati e finanziatori, è riuscito a battere un candidato di una coalizione sulla carta decisamente più forte. Alle ultime regionali, un candidato di sinistra indipendente, Rosario Crocetta, insieme al suo movimento (il Megafono) e con l'appoggio di PD ed UDC, per la prima volta nella storia repubblicana dell'isola, è riuscito a vincere le elezioni regionali. Ed, a livello nazionale, alle politiche di febbraio il M5S di Grillo è diventato alla Camera il primo partito d'Italia con 8 milioni e 700 mila voti.
E' utile cercare di capire perché sempre più negli ultimi anni gli elettori, alle strutture rappresentative tradizionali (partiti e sindacati), preferiscono forme politiche più "liquide", come associazioni o movimenti.
Senza dubbio le inchieste che negli ultimi anni hanno coinvolto deputati, senatori e consiglieri regionali hanno fatto perdere reputazione ai partiti ed hanno contribuito a spostare la domanda di politica che c'è sul territorio da organizzazioni poco credibili come le formazioni partitiche - dove nel tempo si è ridotta la qualità della classe dirigente, grazie anche a meccanismi di selezione basati sui più fedeli e non sui più capaci - a soggetti più dinamici come associazioni e movimenti. I quali stanno sui territori e si confrontano quotidianamente con le persone; non avendo strutture gerarchiche, valorizzano i più capaci ed i più carismatici; utilizzano meglio dei partiti i nuovi strumenti di comunicazione (blog, social network, sondaggi on line, feed back col popolo del web).
Già questo aspetto configura il consenso elettorale dei movimenti, non più solo come voto di protesta -  come avveniva in passato , ma come espressione di un'esigenza di cambiamento, e quindi come voto per proporre qualcosa di nuovo.
Ma c'è un secondo aspetto che va evidenziato. La poca credibilità dei partiti non basta a spiegare il successo dei movimenti e soprattutto la continuità del consenso. Generalmente - è stato così in passato - il consenso elettorale dei movimenti ha vita breve, qualche stagione o al massimo un anno. Se la popolarità dei movimenti politici recenti, come il M5S, si mantiene costante, allora ci sono ragioni "strutturali" che lo alimentano. E forse la più importante di tali ragioni sta nella trasformazione avvenuta nel mercato del lavoro. Attualmente, tra i nuovi assunti 8 su 10 sono precari; il posto a tempo indeterminato sembra una condizione sempre più rara, soprattutto al Sud. E se la flessibilità negli altri paesi europei è stata affiancata da strumenti di sostegno al reddito universali, nel nostro paese i lavoratori precari si trovano senza alcuna tutela nei periodi di non lavoro. E sono questi i soggetti che da tempo hanno trovato in Grillo un riferimento politico. E' il mondo dei precari una delle componenti più importanti del blocco sociale del M5S.
Tale trasformazione della struttura produttiva e del mercato del lavoro è ancora più evidente al Sud. Il modello ad economia assistita che ha caratterizzato il Mezzogiorno dagli '60 agli anni '90 del secolo scorso, attraverso i finanziamenti pubblici assicurava lavoro e voti. I grandi partiti di massa, infatti, sfruttavano queste risorse in maniera clientelare, assicurandosi un consenso strutturale di milioni di elettori.
La fine di questo modello, definitivamente tramontato a causa della competizione globale e della crisi fiscale dello Stato, ha condizionato il modello politico clientelare. La classe politica meridionale, con le poche risorse pubbliche trasferite ogni anno alle regioni del Sud dallo Stato centrale, non è stata più nella condizione di dare risposte e garantire lavoro. E quindi non riesce più a gestire il consenso elettorale, che adesso, divenuto più libero, si rivolge ai movimenti. Negli anni '70, i movimenti politici erano molto forti nel centro-nord del paese, mentre nel Sud non riuscivano ad incidere sul voto. La fine del modello ad economia assistita nel Mezzogiorno ha uniformato le dinamiche elettorali.
Concludendo, quale deve essere il ruolo di un grande partito di massa come il PD nel rapporto con i nuovi movimenti? Innanzitutto, per avere un ruolo, il Partito Democratico deve ridefinire il proprio profilo identitario, sia culturalmente (chiarendo quale linea tenere sui temi dei diritti civili) che politicamente (specificando la propria collocazione internazionale tra le forze progressiste). Non si capisce perché ancora non riusciamo a definirci un partito di sinistra (visto che ce n'è uno forte di destra) ancorato alla storia del socialismo europeo.
Sempre per rendere chiaro a noi ed ai nostri elettori chi siamo e dove vogliamo andare, il PD, dopo una attenta analisi della trasformazione della società, deve indicare espressamente i soggetti deboli che vuole difendere: precari, nuovi poveri, classe medie, pensionati. Ed adeguare il proprio programma ai soggetti sociali di riferimento. Per essere più chiari: se una categoria che vogliamo difendere sono i precari, allora una battaglia esplicita del PD deve essere fatta sul reddito minimo garantito. Se vogliamo tutelare la classe media, allora dobbiamo ridurre le aliquote fiscali per queste fasce di reddito ed introdurre una patrimoniale per le grandi ricchezze.
Definito il proprio profilo identitario, va necessariamente aperto una canale di dialogo con quei movimenti con una matrice culturale comune a quella del PD. Cercando di coglierne gli aspetti innovativi, costruendo un luogo permanente di dialogo, sforzandosi di comprendere e rappresentare le istanze di cambiamento che, fino ad ora, si sono rivolte a questi movimenti.
Con l'obiettivo di divenire il Partito Democratico il soggetto politico di cambiamento che la società italiana ormai da anni richiede e che, almeno fino ad ora, i suoi dirigenti non sono riusciti ad offrire.

Piero David