domenica 1 dicembre 2013

Primarie 2013: le cose cambiano cambiandole.


A che cosa servono le primarie dell'8 dicembre 2013? Non bisogna individuare il candidato alla Presidenza del Consiglio, ma in quella data gli elettori del PD potranno scegliere il nuovo segretario ed i nuovi organismi dirigenti che per quattro anni gestiranno il Partito Democratico. E considerata l'importanza della scelta (il PD è l'unico grande partito di massa che ancora esiste), per decidere bisogna prima valutare e dare un giudizio di come è stato gestito questo partito negli ultimi quattro anni, sia per le scelte politiche, sia per la conduzione interna.
Qual è il bilancio dell'attuale gruppo dirigente? Dal punto di vista politico è senza dubbio molto modesto. In tre degli ultimi quattro anni il PD ha governato insieme al centro-destra, senza portare avanti nessuna delle grandi riforme di sistema di cui questo paese ha ancora bisogno. Alle ultime elezioni politiche l'attuale gruppo dirigente, con Bersani candidato, è riuscito a non vincere una campagna elettorale dove a tre mesi dal voto il nostro principale avversario partiva da 10 punti in meno. Chi ha gestito il PD in questi anni non è riuscito, in una difficile crisi economica e sociale, a dettare l'agenda politica ed a imporre determinati punti in chiave anticiclica: interventi per l'occupazione, riduzione delle tasse per le fasce di reddito più basse, investimenti in istruzione e ricerca. E soprattutto non ha ottenuto risultati in quello che dovrebbe essere il principale obiettivo di un partito di sinistra: la redistribuzione della ricchezza. Le distanze tra i più ricchi ed i più poveri sono cresciute e non diminuite.
Questo gruppo dirigente, che di fatto ha fallito l'obiettivo di riportarci al governo per cambiare il Paese, è lo stesso che adesso si ripresenta con facce nuove. Renzi e Cuperlo rappresentano infatti le due correnti del PD che in questi anni si sono alternate nella gestione del partito con gli scarsi risultati prima accennati. Il gruppo dirigente di Renzi è composto da dirigenti come Fassino, Franceschini e Veltroni. Quello di Cuperlo è espressione di Bersani, D'Alema, Finocchiaro e Fioroni.
Ora, un segretario non va selezionato solo per le sue qualità personali. Renzi è senza dubbio molto efficace nella comunicazione. Cuperlo è tra le migliori menti del nostro partito. Ma un segretario va  scelto per il gruppo dirigente che ha dietro e che con lui prenderà le scelte. Se direzione ed assemblea nazionale saranno espressione sempre degli stessi deputati, ma cambierà solo il segretario, la linea politica del PD, i suoi difetti, le sue ambiguità resteranno sempre le stesse.
Per queste ragioni crediamo che Civati sia l'unico candidato alla segreteria che rappresenti una vera discontinuità col passato e che ha un'idea chiara su quale partito vogliamo per i prossimi quattro anni. Un PD con un'identità definita che risolva la questione della collocazione internazionale (il PSE), con un progetto di coalizione di centro sinistra per il futuro, con un'idea precisa sui soggetti sociali da rappresentare e difendere: precari, disoccupati, famiglie a basso reddito. E con una proposta politica concentrata su tali soggetti: reddito minimo garantito, strumenti per la ripresa dell'occupazione, interventi per fare ripartire lo sviluppo nelle aree deboli del Paese come il Mezzogiorno, investendo soprattutto in cultura, istruzione e ricerca.
Ma il PD del futuro deve cambiare anche per quanto riguarda la gestione interna. Fino ad oggi, in tutti i territori, non solo a Messina, il PD è stato il partito degli eletti, dove pochi, spesso i deputati, decidevano per tutti e gli organismi dirigenti venivano convocati solo per ratificare quanto già stabilito.
L'idea che noi abbiamo del PD, è invece di un partito dove si coinvolgono gli iscritti e gli elettori nelle decisioni più importanti, dove gli organismi dirigenti discutano e stabiliscano la linea del partito indipendentemente dai deputati, dove il meccanismo di selezione degli organismi dirigenti privilegiato non sia la cooptazione, adottata finora nel partito degli eletti, ma la competenza, il merito, la presenza attiva nella vita politica.
Un partito, infine, che si occupi molto più di politica e meno di sottogoverno. E questo lo si può fare ritornando a promuovere iniziative politiche sul territorio, sia sulle tematiche locali (rifiuti, trasporti, fondi strutturali), sia portando anche a Messina il dibattito sui grandi temi nazionali con importanti esponenti politici. Ed è questa prospettiva che stiamo organizzando due appuntamenti molto importanti nelle prime settimane di dicembre con Corradino Mineo (il 7 dicembre alle 10,30) e con Fabrizio Barca (il 12 dicembre alle 17). Ed è con questo approccio che vogliamo continuare il nostro progetto di cambiamento del PD anche dopo le primarie dell'8 dicembre.

Piero David

domenica 20 ottobre 2013

Il Sud non sarà un paese per giovani


Non sono consuete analisi economiche sull’economia meridionale che guardino al lungo periodo. La crisi, con le sue emergenze, impone quasi sempre uno sguardo corto, su situazioni aziendali improvvisamente critiche, scadenze di bilancio, disagi che richiedono interventi urgenti sia pure a carattere provvisorio. Se, per una volta, si abbandonasse l’ottica del breve periodo e si guardasse all’andamento di alcuni cicli socio-economici, da qui agli anni a venire, comprenderemmo come la generazione 2.0 (i ventenni di oggi, insomma) si troverà a vivere in un Mezzogiorno con caratteristiche assai diverse, nel riferimento ad alcuni parametri, rispetto a quello di oggi. A meno che non intervengano, imprevedibili, al momento, inversioni di tendenza. Proiettiamoci in un futuro prossimo con l’occhio a tre fenomeni: il saldo demografico del Sud, la migrazione dal Sud al Nord, le condizioni di povertà nel Mezzogiorno.
Dunque, come può leggersi in un recente documento presentato dalla Svimez, nel silenzio generale, l’Italia sta cambiando geografia per effetto del calo delle nascite, i minori rientri in età fertile, gli spostamenti delle componenti più dinamiche, giovani e qualificate verso il Nord. Dal 2012 al 2065, è previsto un calo di 4,2 milioni di persone nel Sud a fronte di un aumento di 4,5 nel Centro-Nord. In altri termini, la popolazione del Mezzogiorno sul totale nazionale crollerà dall’attuale 34% al 27,3%, da circa un terzo ad un quarto. La perdita di popolazione interesserà, da qui al 2065, tutte le classi di età più giovane del paese, con una conseguente erosione della base della piramide dell’età, una sorta di “rovesciamento” rispetto a quella del Centro-Nord. Oggi, nel Mezzogiorno ci sono quattro milioni circa di giovani tra i 15 ed i 29 anni; nel 2065 saranno due milioni. Si pensi agli effetti che questa “desertificazione” provocherà, per esempio, sul sistema formativo, su quello sanitario e sul mercato del lavoro: in assenza di misure specifiche rivolte all’incremento demografico il Mezzogiorno dei prossimi decenni sarà fortemente decimato nella sua componente più vitale, prolifica e produttiva.
Passiamo al fenomeno della migrazione dal Mezzogiorno verso il Centro-Sud. Che ha interessato in dieci anni, dal 2001 al 2011, un milione e trecentomila persone di cui 172 mila laureati. Questi ultimi, nel 2000, erano il 10,7 % del totale di quanti si trasferivano al Centro-Nord. Dieci anni dopo, nel 2011, sono più che raddoppiati, salendo al 25%. In più, nel periodo in esame, sono emigrati all’estero 100 mila meridionali, di cui 20 mila laureati.
Resta da accennare alla condizione di povertà: il 14,1 % delle famig1ie meridionali (contro il 5,1%) del Centro-Nord vive con meno di mille euro al mese. In Sicilia il 29,6% delle famiglie. Il che rimanda ad un’economia di sussistenza fondata su forme di lavoro sommerso, illegale, informale. Oltre che ad un accesso a misure di welfare che spesso si prestano a sprechi e truffe. In sostanza, esiste nel Mezzogiorno una condizione di povertà strutturale che va aggravandosi anno dopo anno, in parallelo all’estendersi di un’economia “canaglia” di sopravvivenza.
Riassumiamo: calo demografico, emigrazione, povertà. Il perdurare di queste tendenze trasforma il Mezzogiorno, ne cambia i connotati produttivi, ne impoverisce capitale umano e infrange coesione e solidarietà.
Riportiamoci al presente per annotare un divario sugli effetti tra Nord e Sud dovuto alle manovre di correzione del bilancio che si sono succedute dal 2010 al 2013. Nel complesso l’onere di risanamento sopportato dal Centro-Nord oscilla tra il 70% ed il 72% di quello complessivo. Valutato in termini di Pil territoriale, il carico della manovra presenta caratteristiche differenti. Considerando l’aumento delle entrate e la diminuzione della spesa tra il 2012 ed il 2014 può valutarsi un’incidenza del Pil complessivo del 6,5%. Disaggregandola, può constatarsi come il peso a carico del Centro-Nord sia pari al 6% circa del Pil e quello a carico del Mezzogiorno si avvicini al 9% (elaborazioni Svimez su documenti ufficiali). Incidono su questo divario, in particolare, i tagli della spesa in conto capitale: una misura particolarmente penalizzante per il Sud poiché gli investimenti pubblici hanno nell’area un impatto molto forte.

Queste drammatiche previsioni nel medio-lungo periodo assumono toni ancora più foschi con lo sguardo al presente. Il Mezzogiorno sta vivendo la crisi in misura maggiore che nel resto del paese. Prendiamo i dati dei 2012: le stime ci dicono che il PIL italiano diminuirà del 2,4%. Quello del Centro-Nord del 2,1%, e quello del Mezzogiorno del 3,2%. La crisi, in sostanza, non cristallizza i divari territoriali, piuttosto li aggrava. Negli ultimi dieci anni (2001-2012) il Pil del Mezzogiorno ha registrato un calo del 3,8% decisamente distante dal Centro-Nord (3,3%), a testimonianza del perdurante divario di sviluppo tra le due aree. Ma la dinamica diviene ancora più pesante se ci si limita ad osservare, nel ciclo della crisi, gli ultimi quattro anni, dal 2008 al 2012: il Mezzogiorno ha perso oltre il 10% del Pil, quasi il doppio dei Centro-Nord (5,8%).
Tre osservazioni a commento: il Mezzogiorno risulta penalizzato dal ciclo economico sia con riferimento all’ultimo decennio sia con riferimento agli anni futuri. Non è assolutamente possibile fronteggiare questa recessione strutturale a livello regionale, ma sul futuro non  è possibile pronosticare né consapevolezza né reazione.
Si snoda in questi giorni un film nel quale ogni protagonista ritiene di mettere in salvo il bottino accumulato, disinteressandosi dei bene comune e piuttosto teso ad assicurarsi un benessere intra-generazionale. Senza un cambiamento di sistema, che oggi non si intravede, questa egoistica ispirazione potrebbe risultare inutilmente coltivata. E tra qualche decennio il Sud non sarà più un paese per giovani.

Mario Centorrino

Piero David

sabato 19 ottobre 2013


Politica in Movimento



Partiti e movimenti nella crisi della politica

La crisi della politica, la trasformazione del mercato del lavoro, l’innovazione delle forme di comunicazione ha prodotto nei territori la liquefazione delle forme politiche. I nuovi soggetti sociali (precari, disoccupati qualificati, esodati) non si riconoscono più nelle strutture rappresentative tradizionali (sindacati e partiti), ma percepiscono come soggetti politici di cambiamento i movimenti e le associazioni, agenti meno burocratici e più efficaci mediaticamente, che negli ultimi anni hanno occupato di fatto spazi politici fino a qualche tempo fa riservati solo ai partiti. Il PD non deve considerare tali espressioni della società come partiti politici ai quali contrapporsi. Deve, invece, costruire luoghi di dialogo permanente con i movimenti con i quali si condividono valori di base e finalità, per cercare di coglierne gli aspetti più innovativi e limitarne le forme più estreme, cercando di affermarsi con autorevolezza come riferimento politico ed istituzionale.

E' importante, soprattutto nella fase congressuale del Partito Democratico, approfondire le ragioni che hanno portato, soprattutto nell'ultimo anno, i movimenti politici a risultati elettorali molto importanti.
A Messina, un candidato pacifista e movimentista come Renato Accorinti, è riuscito in pochi mesi a condurre alla vittoria un movimento che, senza strutture partitiche di rilievo, deputati e finanziatori, è riuscito a battere un candidato di una coalizione sulla carta decisamente più forte. Alle ultime regionali, un candidato di sinistra indipendente, Rosario Crocetta, insieme al suo movimento (il Megafono) e con l'appoggio di PD ed UDC, per la prima volta nella storia repubblicana dell'isola, è riuscito a vincere le elezioni regionali. Ed, a livello nazionale, alle politiche di febbraio il M5S di Grillo è diventato alla Camera il primo partito d'Italia con 8 milioni e 700 mila voti.
E' utile cercare di capire perché sempre più negli ultimi anni gli elettori, alle strutture rappresentative tradizionali (partiti e sindacati), preferiscono forme politiche più "liquide", come associazioni o movimenti.
Senza dubbio le inchieste che negli ultimi anni hanno coinvolto deputati, senatori e consiglieri regionali hanno fatto perdere reputazione ai partiti ed hanno contribuito a spostare la domanda di politica che c'è sul territorio da organizzazioni poco credibili come le formazioni partitiche - dove nel tempo si è ridotta la qualità della classe dirigente, grazie anche a meccanismi di selezione basati sui più fedeli e non sui più capaci - a soggetti più dinamici come associazioni e movimenti. I quali stanno sui territori e si confrontano quotidianamente con le persone; non avendo strutture gerarchiche, valorizzano i più capaci ed i più carismatici; utilizzano meglio dei partiti i nuovi strumenti di comunicazione (blog, social network, sondaggi on line, feed back col popolo del web).
Già questo aspetto configura il consenso elettorale dei movimenti, non più solo come voto di protesta -  come avveniva in passato , ma come espressione di un'esigenza di cambiamento, e quindi come voto per proporre qualcosa di nuovo.
Ma c'è un secondo aspetto che va evidenziato. La poca credibilità dei partiti non basta a spiegare il successo dei movimenti e soprattutto la continuità del consenso. Generalmente - è stato così in passato - il consenso elettorale dei movimenti ha vita breve, qualche stagione o al massimo un anno. Se la popolarità dei movimenti politici recenti, come il M5S, si mantiene costante, allora ci sono ragioni "strutturali" che lo alimentano. E forse la più importante di tali ragioni sta nella trasformazione avvenuta nel mercato del lavoro. Attualmente, tra i nuovi assunti 8 su 10 sono precari; il posto a tempo indeterminato sembra una condizione sempre più rara, soprattutto al Sud. E se la flessibilità negli altri paesi europei è stata affiancata da strumenti di sostegno al reddito universali, nel nostro paese i lavoratori precari si trovano senza alcuna tutela nei periodi di non lavoro. E sono questi i soggetti che da tempo hanno trovato in Grillo un riferimento politico. E' il mondo dei precari una delle componenti più importanti del blocco sociale del M5S.
Tale trasformazione della struttura produttiva e del mercato del lavoro è ancora più evidente al Sud. Il modello ad economia assistita che ha caratterizzato il Mezzogiorno dagli '60 agli anni '90 del secolo scorso, attraverso i finanziamenti pubblici assicurava lavoro e voti. I grandi partiti di massa, infatti, sfruttavano queste risorse in maniera clientelare, assicurandosi un consenso strutturale di milioni di elettori.
La fine di questo modello, definitivamente tramontato a causa della competizione globale e della crisi fiscale dello Stato, ha condizionato il modello politico clientelare. La classe politica meridionale, con le poche risorse pubbliche trasferite ogni anno alle regioni del Sud dallo Stato centrale, non è stata più nella condizione di dare risposte e garantire lavoro. E quindi non riesce più a gestire il consenso elettorale, che adesso, divenuto più libero, si rivolge ai movimenti. Negli anni '70, i movimenti politici erano molto forti nel centro-nord del paese, mentre nel Sud non riuscivano ad incidere sul voto. La fine del modello ad economia assistita nel Mezzogiorno ha uniformato le dinamiche elettorali.
Concludendo, quale deve essere il ruolo di un grande partito di massa come il PD nel rapporto con i nuovi movimenti? Innanzitutto, per avere un ruolo, il Partito Democratico deve ridefinire il proprio profilo identitario, sia culturalmente (chiarendo quale linea tenere sui temi dei diritti civili) che politicamente (specificando la propria collocazione internazionale tra le forze progressiste). Non si capisce perché ancora non riusciamo a definirci un partito di sinistra (visto che ce n'è uno forte di destra) ancorato alla storia del socialismo europeo.
Sempre per rendere chiaro a noi ed ai nostri elettori chi siamo e dove vogliamo andare, il PD, dopo una attenta analisi della trasformazione della società, deve indicare espressamente i soggetti deboli che vuole difendere: precari, nuovi poveri, classe medie, pensionati. Ed adeguare il proprio programma ai soggetti sociali di riferimento. Per essere più chiari: se una categoria che vogliamo difendere sono i precari, allora una battaglia esplicita del PD deve essere fatta sul reddito minimo garantito. Se vogliamo tutelare la classe media, allora dobbiamo ridurre le aliquote fiscali per queste fasce di reddito ed introdurre una patrimoniale per le grandi ricchezze.
Definito il proprio profilo identitario, va necessariamente aperto una canale di dialogo con quei movimenti con una matrice culturale comune a quella del PD. Cercando di coglierne gli aspetti innovativi, costruendo un luogo permanente di dialogo, sforzandosi di comprendere e rappresentare le istanze di cambiamento che, fino ad ora, si sono rivolte a questi movimenti.
Con l'obiettivo di divenire il Partito Democratico il soggetto politico di cambiamento che la società italiana ormai da anni richiede e che, almeno fino ad ora, i suoi dirigenti non sono riusciti ad offrire.

Piero David

martedì 24 settembre 2013

L'evoluzione della Matteonomics

Dopo il ventennio berlusconiano, il nuovo protagonista della politica italiana sembra essere Matteo Renzi, sindaco di Firenze e, molto probabilmente, candidato alla segreteria nazionale del Partito Democratico, ed in futuro, a premier della coalizione di centro-sinistra. Cerchiamo di capire qual è la sua visione dell'economia italiana ripercorrendo l'evoluzione delle sue proposte: dalla discesa in campo (la c.d. Leopolda) nel 2011 al documento preparato dal suo guru economico Yoram Gutgeld per il prossimo congresso del PD (sul tema non esiste letteratura con eccezione di un volume d'occasione: M.Renzi, Oltre la rottamazione, Mondadori, 2013).

1) Il Renzi rottamatore del 2011

Le 100 proposte della Leopolda, presentate nell'ottobre del 2011, si caratterizzavano per una forte innovazione e radicalità, sia dal punto di vista istituzionale (soppressione di una Camera, dimezzamento dei deputati, abolizione delle province, accorpamento dei comuni, abolizione del CNEL, diritto di voto a 16 anni) che dal punto di vista economico, soprattutto sui temi della concorrenza (abolizione dell'IRAP finanziata col taglio dei sussidi alle imprese, riforma degli ordini professionali, antitrust obbligatorio, competizione tra pubblico e pubblico), delle privatizzazioni (si proponeva di privatizzare le prime due reti rai, le municipalizzate, le imprese pubbliche) e delle liberalizzazioni (liberalizzazione del trasporto pubblico regionale). Inoltre, in tema di mercato del lavoro si riprendeva la proposta di Boeri e Garibaldi di un contratto unico a tutele progressive, ed all'interno della riforma degli ammortizzatori sociali, si proponeva un'indennità di disoccupazione universale improntata al criterio del welfare to work sul modello danese.
Per quanto riguarda le politiche pubbliche le proposte erano: investire in poche grandi opere e molte piccole e medie opere, digitalizzare i servizi pubblici, riorganizzare gli uffici della giustizia, valorizzare più efficacemente cultura e turismo. E per quanto riguarda l'accesso tramite concorso nella Pubblica Amministrazione si consigliava l'abolizione del valore legale del titolo di studio.
Un programma vasto con un obiettivo chiaro di forte rinnovamento istituzionale, economico e culturale della struttura repubblicana del Paese.

2) Il Renzi liberal delle primarie del 2012

Nel programma delle primarie del 2012, dove l'obiettivo è la leadership del centro-sinistra alle politiche del 2013, consigliato dal liberal Piero Ichino, vengono ripresi i temi della concorrenza e delle liberalizzazioni, ed adeguato il programma al nuovo contesto economico. Pertanto, rispetto ai 100 punti della Leopolda, viene aggiunta una parte con le proposte relative all'uscita dalla recessione (rivedere il patto di stabilità per consentire ai Comuni virtuosi di investire, ridurre il debito attraverso un serio programma di dismissioni del patrimonio pubblico) ed uno spazio dedicato all'Europa (istituzioni europee al servizio della stabilità e della crescita, elezione diretta da parte dei cittadini europei di una figura che sommi le cariche di Presidente della Commissione e di Presidente del Consiglio europeo, una vera politica estera e di difesa comune). Inoltre si comincia a concedere più spazio nel programma ai temi sociali (dare al 40% dei bambini sotto i tre anni un posto in un asilo pubblico entro il 2018, un forte investimento sulla scuola) ed all'evasione fiscale (un’unica Agenzia per combattere l’evasione, recupero dell’evasione fiscale del 25-30 per cento, da distribuisce alle fasce meno abbienti). Un accenno anche al contrasto alla corruzione ed alla criminalità organizzata.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro si parla esplicitamente di sperimentare in Italia la flexicurity, ispirandosi al modello scandinavo: tutti assunti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di contratto a termine), a tutti una protezione forte dei diritti fondamentali e in particolare contro le discriminazioni, nessuno inamovibile; a chi perde il posto per motivi economici od organizzativi un robusto sostegno del reddito e servizi di outplacement per la ricollocazione.
In sostanza, si apre leggermente a sinistra l’impostazione renziana, soprattutto sui temi sociali e sull’evasione, ma l’impianto di base resta liberal: riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni dei servizi, tagli alla spesa pubblica improduttiva.

3) Il Renzi laburista del 2013

Andiamo all’ultima fase dell’evoluzione della Matteonomics, incarnata dal documento al quale sta lavorando Yoram Gutgeld, deputato del Pd e guru economico del sindaco di Firenze, che in forma ancora embrionale è stato pubblicato dal “Foglio” a fine giugno (Cerasa C., Matteonomics - Renzi punta a scalare il Pd con una piattaforma economica “Laburista”, Il Foglio, 27 giugno 2013). Questo terzo documento già dal titolo rivela un approccio differente ai temi economici rispetto al passato da parte di Renzi. Se nelle 100 proposte della Leopolda il termine "sinistra" era assente nel documento, e nel programma delle primarie 2012 ricorreva solo due volte, in quest'ultimo documento già dal titolo si capisce che gli obiettivi sono cambiati: "il rilancio parte da sinistra". Un'espressione che ricorre ripetutamente in questa bozza, nell’introduzione quasi ossessivamente.
A differenza dei documenti precedenti, quest’ultimo contiene un’analisi molto dettagliata del contesto economico italiano, propria di chi studia scientificamente questi temi, soffermandosi sulla competitività e sulla produttività delle imprese. Alle origini della mancata crescita del nostro Paese, secondo Gutgeld, ci sono alcuni problemi di natura strutturale: perdita di competitività, bassa fedeltà fiscale, crescita della spesa pubblica a bassa produttività, investimenti in grandi opere che incidono poco su produttività e occupazione, alto ricorso al debito delle PMI.
Secondo l’analisi di Gutgeld la scarsa competitività delle imprese italiane è legata principalmente agli elevati costi di produzione. Ma non tanto nella sua componente salariale netta, che negli anni è rimasta sostanzialmente costante, quanto nel peso fiscale e nel costo dei servizi. Come riporta in una delle tante tabelle del documento l’economista renziano, il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) è cresciuto del 26% rispetto alla Germania in 10 anni. Di questo aumento solo il 6% è imputabile ai divari di produttività dei due paesi, mentre il restante 20% è conseguenza del cuneo fiscale e del costo dei servizi alle imprese, che si caratterizzano in Italia per bassa produttività ed alti prezzi.
Se per ridurre i prezzi dei servizi privati la proposta è in sostanza di rafforzare le Authority esistenti per renderle più efficaci con obiettivi espliciti di vigilanza e poteri di intervento sui prezzi in caso di scostamenti eccessivi, liberalizzando anche quei settori ancora troppo protetti (prodotti farmaceutici); per migliorare la produttività dei servizi pubblici Gutgeld propone di centralizzare alcune spese (ad es. quelle sanitarie e per il welfare), proseguire la politica di apertura dei mercati e di rimozione dei vincoli alla concorrenza (ad es. separare il gestore della rete ferroviaria RFI dall’operatore ferroviario Trenitalia), adottare Piani Industriali per razionalizzare la P.A. (ad es. riorganizzare le Prefetture).
Per contrastare l'evasione fiscale, cavallo di battaglia da sempre della sinistra, il documento prevede di centralizzare le informazioni sui redditi e sui patrimoni dei cittadini, limitare il pagamento in contante a 500€, obbligare i professionisti ad utilizzare strumenti di pagamento elettronici, collegare Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza ed Equitalia, introdurre la fattura elettronica per i pagamenti tra le aziende ed infine, ridurre le tasse per "incentivare" la fedeltà fiscale. L'idea sarebbe quella di una riduzione immediata dell'Irpef, per un ammontare di 50€, per i redditi netti inferiori a 2000€. Tale intervento, il primo anno, andrebbe finanziato con i tagli alla spesa pubblica, soprattutto vendendo le case popolari agli inquilini, e con l'aiuto della Cassa Depositi e Prestiti. Gli anni successivi si dovrebbe finanziare col gettito atteso dall'azione di contrasto all'evasione.
Questo sembra il punto più debole. Come già Cerase ha evidenziato sul Foglio, la vendita del patrimonio pubblico dovrebbe servire a ridurre lo stock di debito piuttosto che rappresentare un aumento "una tantum" del reddito netto delle fasce meno abbienti della popolazione. Vendere degli assets per finanziare spesa corrente equivale a sottrarre risorse future per consumi presenti: una misura iniqua intergenerazionalmente. Inoltre prevedere un ricavato dal contrasto all'evasione che consenta di ridurre le tasse, senza interventi strutturali più radicali, sa molto più di libro dei sogni che di proposta realizzabile.
Inoltre, nelle schede di Gutgeld manca totalmente una proposta sul mercato del lavoro. Se nel 2011 il modello di riferimento era il contratto unico di Boeri e Garibaldi, e nel programma del 2012 si proponeva la flexicurity di stampo scandinavo, in quest'ultimo documento non si accenna ad alcuna riforma del mercato del lavoro.
Ma ne troviamo, invece, una senza dubbio particolare sul tema dell'occupazione. Gutgeld propone di creare nuovi posti di lavoro con risorse recuperate dai pensionati "ricchi". Scrive l'economista renziano: se per i 500 mila pensionati che percepiscono da 2.405 a 3.367 euro (da cinque a sette volte la pensione minima) si interrompe l'adeguamento all'inflazione per due anni si può recuperare un miliardo di euro. Per le pensioni superiori di sette volte il minimo andrebbero infine previsti tagli del 10 per cento e blocco dell'adeguamento all'inflazione per 3 anni: avremmo così un risparmio di tre miliardi il primo anno e di 3,8 miliardi dal terzo anno in poi. Anche per le pensioni che superano di tre o cinque volte il minimo, quelle che vanno da 1.443 fino a 2.405 euro al mese lordi, si potrebbe pensare di dimezzare l'adeguamento all'inflazione per un anno, con un risparmio di 0,7 miliardi l'anno. Questi risparmi, secondo Gutgeld, potrebbero servire, ad esempio, a finanziare 650 mila giovani in servizio civile o apprendistato a cinquecento euro al mese, come accade in Germania. Con una contraddizione, però, tutta da sciogliere: il rischio di perdita di consenso da parte di un'area consistente di voto (quella dei pensionati) a favore della creazione di easy job, destinata ad allargare il pernicioso problema del precariato.
In sostanza un programma economico meno liberal, con un'analisi più robusta e delle proposte dotate di maggiore concretezza, alcune forse da rivedere. Si perde un po' in radicalità ed innovazione rispetto alle intenzioni degli anni precedenti, ma si guadagna in pragmatismo.
Va rilevata a chiare lettere l’assenza di riferimenti concreti ai divari strutturali del paese, alla necessità di sostenere la lotta alle mafie ed alla corruzione sistemica. Visto da Sud, il programma di Renzi sembra elaborato per un’Italia “svedese” nella quale il Mezzogiorno non è neppure tracciato nella mappa geopolitica.
Impressiona il fatto che questo documento programmatico sia rimasto finora sostanzialmente ignorato dal dibattito pre-congressuale del PD. Quasi a dimostrazione che nel PD, si consideri come elemento di dibattito e di successo, solo il marketing del candidato: quasi un berlusconismo 2.0, presentato in salsa di centro-sinistra.

mercoledì 11 settembre 2013


L'Area metropolitana dello Stretto chiude alle 19

Da oggi (mercoledì 11 settembre n.d.r.) sono in vigore i nuovi orari per il collegamento via mare tra le città di Messina e Reggio Calabria. L'unica compagnia che garantisce l'attraversamento dello Stretto ad oltre un milione di pendolari l'anno, ha stabilito che l'ultima corsa da Messina verso Reggio Calabria sia alle 19.05 nei giorni feriali, alle 19 il sabato e la domenica. Per chi, per ragioni di lavoro o di studio, o per interessi culturali o ricreativi, o per raggiungere l'aeroporto dello Stretto, volesse muoversi in questa area metropolitana, dovrebbe arrivare a Villa San Giovanni, sopportare un costo maggiore, percorrere 15 km di autostrada, senza che ci siano bus di collegamento, ed arrivare a Reggio. Di fatto, alle 19, l'area metropolitana dello Stretto chiude i collegamenti tra le due città capoluogo.
Al Dipartimento di Economia dell'Università di Messina da anni studiamo la condizione economica delle due città e le potenzialità che potrebbe avere in termini di sviluppo la realizzazione di un Area metropolitana dello Stretto. Una maggiore integrazione dei due sistemi territoriali, infatti, permetterebbe una specializzazione funzionale dei servizi (culturali, universitari, sanitari e trasportistici) e quindi una loro migliore efficienza, mettendo a disposizione di ogni cittadino più servizi di più elevata qualità. Ma un altro aspetto è molto importante nella realizzazione di un nuovo modello di sviluppo per il nostro territorio: la costruzione di un'Area metropolitana dello Stretto (con quasi 500 mila abitanti se si considerano solo i due comuni capoluogo e quelli limitrofi, un milione e 200 abitanti se si prendono come riferimento le rispettive province) potrebbe diventare determinante nell’attrazione di nuovi investimenti e capitale umano. Infatti, solo raggiungendo quella massa critica che permette di essere visibili nel contesto di una competizione crescente a scala globale è possibile pensare un modello di sviluppo alternativo a quello da economia assistita che ha caratterizzato i territori meridionali dagli anni '60. Ragionando come singolo comune, senza una strategia di sviluppo complessiva dell'area, non ci sono prospettive  di crescita economica credibili.
E senza crescita e sviluppo economico il default amministrativo sarà sempre dietro l'angolo, al netto della competenza e buona gestione degli amministratori.
Pertanto, l'integrazione delle due città dello Stretto dovrebbe essere un esigenza sentita e perseguita da tutti i soggetti istituzionali. Ed invece, il Ministero dei Trasporti non crede sia utile spendere qualche milione di euro in più per collegare meglio un'area così strategica per il Mezzogiorno e per i traffici del Mediterraneo, l'Autorità Portuale gestisce la zona del porto come se fosse una proprietà privata, l'unica compagnia che collega Messina e Reggio, operando in regime di monopolio, gestisce il servizio con un livello di efficienza e qualità scadente, ed il Comune di Messina mette a disposizione dei circa 5 mila pendolari che ogni giorno attraversano lo Stretto solo quindici posti auto.

In sostanza, non solo nessuno crede nell'integrazione dei due territori, ma si fa di tutto per rendere la vita difficile a chi, come i pendolari, non può fare a meno di attraversare lo Stretto. Eppure basterebbe poco per migliorare il servizio: sarebbe sufficiente che ogni istituzione interessata, invece di pensare esclusivamente ai propri interessi, si occupasse anche di quelli dei cittadini. 

lunedì 9 settembre 2013


Gli avvisi del FSE del Governo precedente: 

meglio bocciarli


Nella precedente legislatura l’Assessorato all’Istruzione ed alla Formazione Professionale aveva provato ad elaborare una politica di sostegno all’Università ed ai Centri di Ricerca della regione.

Innanzitutto riuscendo a fare partire un avviso, istruito da chi l’aveva preceduto, sulla “mobilità dei talenti” che prevedeva un insieme di iniziative (6 misure) a supporto del sistema universitario e della ricerca siciliano: borse di studio per master e progetti di ricerca, e contributi all’assunzione di giovani laureati siciliani, per circa 47 milioni di euro. Di tale avviso era stata bandita la misura 4 che finanziava master di prestigio all’estero per i laureati siciliani (con un impegno di circa 15 milioni di euro). Dopo tale misura (della quale gli studenti invano hanno atteso la terza annualità prevista per febbraio 2013) l’avviso, come risulta dal sito dell’organismo intermedio Sicilia Futura, è stato sospeso. Considerando che tali risorse vanno spese entro il 2015, con questi ritmi molto probabilmente si rischia di perderle. Con buona pace di quelle migliaia di laureati che, non potendo permetterselo, avevano sperato in un sostegno della Regione siciliana alla loro formazione post lauream.

Un secondo bando di circa 8 milioni di euro dedicato alla ricerca in Sicilia era stato pubblicato nel febbraio del 2012 per rafforzare l’occupabilità nel sistema della R&S e stimolare la nascita di spin-off di ricerca in Sicilia. In sostanza si volevano formare nei centri di ricerca siciliani dei borsisti che dopo un anno di attività con i ricercatori fossero nelle condizioni di creare delle start-up che sviluppassero i progetti dei centri di ricerca. Un avviso ambizioso, ma è esattamente quello che serviva per rendere competitivi i territori. E’ ormai teoria consolidata nell’economia regionale il contributo dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione nello sviluppo di un territorio. Nella competizione globale, già adesso, i territori più ricchi sono quelli che hanno investito di più in istruzione, ricerca ed innovazione. Queste sono le basi di qualsiasi programma di sviluppo regionale. Anche la battaglia contro la criminalità organizzata comincia dall’istruzione. Lo scrivono tutti i candidati nei loro programmi elettorali, ma poi nessuno ci crede veramente. E senza dubbio non ci crede la giunta Crocetta ed il suo assessore al ramo, dal momento che la graduatoria definitiva di tale bando, per incomprensibili ragioni, è da mesi in attesa di essere approvata per fare partire i progetti.

E, a dimostrazione di quanto siano distanti programmi elettorali (o proclami) e la concreta attività amministrativa, anche sul tema della legalità c’è un altro avviso, Beni in Comune, dove ci si aspettava un comportamento più attento da parte di chi, come Crocetta, dell’antimafia ha fatto la sua principale battaglia. Tale avviso, infatti, pubblicato nel marzo del 2011, aveva come obiettivo la formazione e l’accompagnamento del personale degli Enti territoriali siciliani (Comuni, Province e Regione) in materia di gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata da parte delle istituzioni universitarie siciliane. Probabilmente interveniva sull’anello più delicato della procedura che dal sequestro porta all’assegnazione dei beni confiscati alla mafia. Insieme ad esperti degli Atenei siciliani e con la collaborazione dell’Assistenza Tecnica del FSE si era riusciti a bandire un avviso che, con un costo ridotto (tre milioni di euro), non solo contribuiva a risolvere criticità amministrative siciliane nelle procedure relative ai beni confiscati alla mafia, ma era diventato una best pratice per altre regioni.

Ma anche su quest’ultimo bando, come per i precedenti, avviso fermo: la legalità per Crocetta ha altre priorità

venerdì 6 settembre 2013



 Le larghe intese alla messinese

Le ultime decisioni dei rappresentanti del Partito Democratico in Consiglio Comunale evidenziano la necessità del PD di Messina di ripristinare la funzionalità degli organismi dirigenti cittadini e provinciali.

La sconfitta elettorale delle amministrative di giugno contro il movimento che sosteneva Accorinti ha le sue ragioni principali nella scelta di parte del nostro elettorato, quello più di sinistra, di votare il candidato movimentista, assimilando il nostro partito a quella classe politica che ha portato la nostra città al quasi dissesto.

Non siamo riusciti a farci percepire diversi dal centro-destra, in discontinuità con le amministrazioni passate, nonostante il PDL, e non il PD, abbia governato in città, alternandosi con i commissari, gli ultimi quindici anni.
La sconfitta elettorale avrebbe dovuto farci riflettere sugli errori commessi e quindi sulla linea da tenere in consiglio comunale. E invece si continuano a fare gli stessi errori.

Essendo all'opposizione, insieme al PDL, di una giunta che ha pescato molto nel nostro elettorato, dovremmo fare di tutto per distinguerci dal centro-destra e tentare di riconquistare parte del consenso perso. Alla prima occasione, invece, su un tema dove la sinistra ha un approccio sociale e culturale molto diverso dalla destra, il PD fa una conferenza stampa congiuntamente al PDL: le larghe intese alla messinese. Rischiando di convincere anche quella parte di elettorato di sinistra che non ci sia nessuna differenza politica tra noi ed il centrodestra nell'amministrazione della città.

Ovviamente questo tipo di errori politici erano prevedibili già dal giorno dopo l'elezione dei consiglieri comunali. E sono la conseguenza della sbagliata composizione delle liste del centrosinistra, formate con un solo criterio: prendere più voti. Imbarcando anche molti consiglieri che fino a qualche mese prima erano nel centro-destra. Ora, se un consigliere cambia idea, matura una nuova visione della società, dei suoi problemi e di come risolverli, e, condividendo spirito, valori di fondo e linea politica del PD, decide di aderirvi e candidarsi, è un fatto positivo, perché rappresenta un valore aggiunto.
Se, al contrario, si candida nel PD, rimanendo culturalmente e politicamente nel centrodestra, allora questo è un problema molto serio. Poiché la presenza di tali consiglieri potrebbe cambiare i connotati politici del PD nelle istituzioni cittadine.

Questa situazione impone pertanto al nostro partito di ripristinare al più presto la funzionalità degli organismi dirigenti, comunali e provinciali, e aprire un confronto continuo con i propri rappresentanti in consiglio comunale, con l'obbiettivo di ricostruire un'identità politica che negli ultimi anni sembra scomparsa.

E' necessario che da questo confronto dentro il partito emerga la linea da tenersi in consiglio comunale su quale rapporto il PD deve tenere con la giunta Accorinti, su come differenziarci in consiglio dal centro-destra ed, infine, sulla definizione di una nostra agenda politica di priorità per la città che permetta al PD di presentare proposte chiare sui temi dell'economia, delle politiche sociali e culturali, e sui trasporti.

mercoledì 4 settembre 2013

La Grillonomics


L'analisi dettagliata del programma economico di Grillo, se da una parte conferma i caratteri di superficialità, ed a volte demagogia, delle proposte del Movimento Cinque Stelle, dall'altra mette in evidenza la comune matrice valoriale con la cultura di sinistra: eguaglianza, sobrietà dei consumi, ambientalismo, democrazia, regolazione del liberismo, difesa dei diritti dei più deboli, sono tutti elementi qualificanti della cultura politica di sinistra.
Dal programma economico di Grillo emerge chiaramente come i soggetti sociali di riferimento del M5S siano due principalmente: il primo, in ordine temporale, sono i precari; l'altro è rappresentato dalle piccole e medie imprese.
I lavoratori precari sono stati i primi che hanno riempito le pagine del Blog di Grillo, raccontando le proprie esperienze di frustrazione e sfruttamento, raccolte dal comico genovese nel volume "Schiavi moderni".
L'altro soggetto sociale di riferimento, più recente, è costituito dalla piccole e medie imprese (PMI), con le quali, soprattutto negli ultimi due anni, si è stretto un rapporto sinergico: tramite i sondaggi promossi sul blog, il M5S è riuscito a costruire una piattaforma programmatica per le PMI che adesso i deputati grillini stanno trasformando in proposte di legge da discutere in Parlamento.
Qui emerge l'altra fondamentale caratteristica del movimento di Grillo che ne fa un soggetto molto più stabile e "strutturato" dei passati movimenti di protesta. Tramite il web Grillo è riuscito ad intercettare l'esigenza di cambiamento e la voglia di partecipazione di quella parte di Paese che si sente in questo momento più a rischio: precari, lavoratori autonomi, piccoli imprenditori.
Se nel secolo scorso erano le sezioni dei partiti di massa la struttura territoriale in grado di percepire cambiamenti e domande della società, adesso, nel secolo dei partiti leggeri questa "struttura" è stata sostituita dal web 2.0, dai blog e dai social network. Questi nuovi strumenti hanno permesso al M5S di diventare punto di riferimento di soggetti che non vogliono fermarsi solo alla protesta, ma che credono di poter cambiare con proposte concrete.
Questo metodo "aperto" di costruzione del programma ne costituisce anche un limite. Non solo in termini di dettaglio e fattibilità della proposta, ma anche per l'impostazione microeconomica che ne deriva. Pertanto mancano nel programma proposte macro sulla politica industriale, sugli interventi per ridurre i divari tra Nord e Sud, su quale politica infrastrutturale o per l'istruzione.

Concludiamo con una considerazione non economica. Se da una parte non si può non biasimare la limitata esperienza e preparazione politica dei grillini eletti in parlamento, dall'altra bisogna ammettere che, senza dubbio, sono tra i pochi rappresentanti delle istituzioni con la volontà di cambiare radicalmente il nostro Paese, e proprio perché mancano di una vera e propria "formazione politica", esprimono tale intenzione senza i filtri del politichese, risultando più efficaci dei loro colleghi dei partiti tradizionali.  Infine, c’è da apprezzare e valorizzare uno sforzo dei grillini di «andare oltre», comune alle diverse generazioni e trasversale alle differenti ideologie, riscoprendo una categoria che la sinistra sembra avere dimenticato: l'utopia.
In relazione alla seduta della Decima commissione consiliare sull'occupazione della Casa del Portuale, è utile fare presente che una parte del Partito Democratico, l'area Civati, a differenza di altri rappresentanti del centro-sinistra al Comune di Messina, condivide su questo tema la posizione della Giunta Accorinti e dell'Assessore Ialacqua.
Innanzitutto sulla questione dell'occupazione non autorizzata della Casa del Portuale. Come forse non tutti i consiglieri comunali sanno, esperienze di centri sociali occupati sono presenti in quasi tutte le medie e grandi città italiane. E se non assistiamo a sgomberi giornalieri di tali luoghi è perchè
da parte delle amministrazioni competenti spesso si riconosce agli occupanti una funzione sociale della loro presenza. Infatti, nella maggior parte dei casi, ad essere occupati sono luoghi degradati. E nel caso del Pinelli, si è recuperato uno spazio abbandonato da anni, dove prima dell'occupazione stazionavano tranquillamente, con buona pace di ben pensanti e consiglieri comunali, prostitute e spacciatori.
Inoltre, la funzione sociale degli spazi occupati, oltre ad attività sociali per bambini ed anziani (come gli occupanti del Pinelli avevano iniziato a svolgere nei spazi del teatro in Fiera prima di essere sgomberati) si esplica anche nella promozione di dibattiti ed informazione alternativa. Democrazia significa dare la possibilità di espressione delle proprie idee anche a quelle minoranze che non si adeguano al pensiero dominante. Ed in tal senso, in tutte le città dove sono presenti i centri sociali, in questi spazi si tollerano attività culturali, musicali o ricreative senza scopo di lucro, non regolamentate. La sperimentazione culturale e musicale è legata alla presenza di questi luoghi e di queste condizioni. Se la musica avesse trovato spazio solo nei locali commerciali non sarebbero cresciuti molti gruppi musicali di hip-hop, rap, ragamuffin, ska, punk. Così anche per le rassegne cinematografiche, gli spettacoli teatrali e le altre forme d'arte. In un contesto come quello di Messina, dove nessuna istituzione investe risorse sulla sperimentazione culturale da almeno venti anni, bisognerebbe apprezzare iniziative spontanee come quella del Pinelli, che danno spazio ad espressioni culturali e politiche alternative.
Anche per quanto riguarda la street art, spesso anche questa si svolge al di fuori della legalità. Ma quando si tratta di artisti e non di vandali, generalmente le amministrazioni tollerano tali espressioni artistiche, poiché valorizzano luoghi degradati. A volte addirittura, tali opere d'arte diventano un'importante attrattiva per i visitatori delle città. Noto è il caso dei murales di Banksy a Bristol, il cui museo gli ha dedicato una mostra nel 2009 che ha avuto 300 mila spettatori in tre mesi. Il murales di via Alessio Valore, realizzato da Blu, uno dei più importanti artisti di strada del mondo, pertanto non può essere trattato come una qualsiasi scritta su un muro.

In conclusione, seguendo l'esempio di altre città, come Roma, che hanno assegnato gli spazi occupati ad alcuni centri sociali poiché ne riconoscevano l'utilità sociale, si consiglia alle istituzioni comunali di promuovere tali attività anziché reprimerle, regolamentando l'uso degli spazi e dei servizi pubblici, ed approcciandosi alla diversità culturale e politica come un'opportunità e non come una minaccia.

domenica 26 maggio 2013

Rifare il PD in Sicilia


Rifare il PD in Sicilia

di Piero David


Dopo una lunga stagione elettorale e con la nascita del governo Letta, si apre una nuova e difficile fase per il Partito Democratico.
L'elezione del Presidente della Repubblica ha evidenziato le contraddizioni di origine del PD, la mancanza di un profilo identitario, la balcanizzazione dei gruppi dirigenti. Ma proprio le tensioni alle quali è stata sottoposta la struttura del partito a tutti i livelli, e la sua sostanziale tenuta, ha mostrato chiaramente come il punto di arrivo e di ripartenza della sinistra in Italia resti comunque il PD. Non ci sono gli spazi per scorciatoie politiche o partitini. La strada, impervia ma necessaria, è quella di cambiare questo partito, trasformandolo da un amalgama mal riuscito in una comunità con un'identità precisa, con una struttura presente nel territorio, aperta e contendibile.
Questo obiettivo è ancora più importante in Sicilia, anche e soprattutto per le sfide che il Partito Democratico deve affrontare in questa regione. La crisi economica, sociale e politica che vive la Sicilia, va oltre le difficoltà economiche che stanno attraversando l'Italia e gli altri paesi europei stremati dall'austerity comunitaria. Nell'isola, come nelle altre regioni meridionali, la crisi è strutturale. Nasce prima della recessione nazionale e continuerà anche dopo la ripresa. Questa volta non basterà la ripresa dalla domanda nazionale o internazionale per rimettere in piedi una struttura economica regionale che di fatto è scomparsa. L'allarme della Svimez di un rischio deindustrializzazione per le regioni meridionali è l'ultimo dei segnali della fine di un modello per il Sud, quello dell'economia assistita, che ormai da anni stava rapidamente declinando e che con l'ultima crisi finanziaria è sostanzialmente arrivato al capolinea. Il modello basato su massicci trasferimenti di risorse pubbliche, che vedeva circa il 70% dei suoi occupati nelle amministrazioni pubbliche, ed il resto impiegato nei settori trainati dalle spese di questi occupati, edilizia e commercio, non è più compatibile con le regole delle istituzioni comunitarie e la crisi fiscale degli stati nazionali.
Va pensato e costruito un nuovo modello di sviluppo per le regioni meridionali basato su un economia competitiva che valorizzi le risorse che i territori del sud naturalmente possiedono. Nella competizione internazionale, se i territori dei paesi sviluppati vogliono concorrere tra loro mantenendo o migliorando i loro livelli di reddito pro-capite, non possono farlo cercando di produrre quello che altri paesi in via di sviluppo realizzano con un costo del lavoro molto più ridotto. La strada da seguire è quella di sfruttare le risorse proprie non riproducibili in altri contesti, quelle naturali ed identitarie, che rappresentano l'unica materia prima in regime di monopolio per i territori meridionali. E di conseguenza pensare una struttura economica basata su nuovi settori produttivi a valore aggiunto elevato come quelli energetico, culturale e turistico di qualità.
Pertanto per chi fa politica al Sud la sfida è individuare un nuovo modello di sviluppo per il proprio territorio. Una sfida molto complessa che ha bisogno di un partito ed una classe dirigente all'altezza. Un partito con una robusta elaborazione politica in grado di dettare l'agenda politica con un ruolo attivo nei confronti del governo Crocetta. E soprattutto un partito che riprenda la buona abitudine della discussione interna e si presenti davanti l'esecutivo regionale unito ed autorevole. Se un Presidente della Regione decide da solo è perché la maggioranza che lo sostiene, e nel caso siciliano il Partito Democratico, si presenta spaccata e senza una chiara proposta politica.
Ma per avere un partito forte, autorevole e con una classe dirigente competente bisogna ricostruire il PD siciliano, modificando radicalmente la pratica politica che lo ha caratterizzato da quando è nato. Innanzitutto va strutturato nel territorio rafforzando la propria presenza politica e cercando di ricostruire con gli elettori un rapporto che permetta di coglierne le istanze politiche. Poi va ripristinata effettivamente la democrazia interna: non è accettabile nella nostra cultura politica il partito del capo, o dei capi. Purtroppo nella nostra regione è prevalso tale modello, quello del partito istituzionale, dove a decidere sono esclusivamente i deputati, con la ratifica successiva degli organismi dirigenti. Va separata la rappresentanza istituzionale dalla segreteria di partito, ripristinando una dialettica tra i due livelli che consenta una più efficace democrazia interna.
Infine è importante un ultimo passaggio. Va siglato da tutte le componenti politiche un patto generazionale che dia spazio finalmente ad una generazione di giovani dirigenti competenti e maturi per prendersi la responsabilità di guidare il Partito Democratico in questo processo di ricostruzione. Non si tratta solo di "rottamare" qualche anziano dirigente per sostituirlo con un suo giovane fedelissimo. Va promossa una nuova leva di dirigenti, fuori dalla gestione politica degli ultimi anni, che sia in grado di ricomporre le antiche fratture del nostro partito in una sintesi unitaria e che riesca ad intercettare meglio l'esigenza di cambiamento che l'elettorato di centro sinistra, e la società siciliana complessivamente, ci chiede. 

Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo


Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo

Piero David

Dopo i primi mesi dedicati più alla campagna elettorale che ai problemi della Sicilia, adesso per il Presidente Crocetta, i suoi assessori ed i parlamentari regionali, inizia il percorso per fare della nostra regione un "modello Sicilia" in termini di ripresa economica ed occupazionale. Le sfide che si troverà affrontare il nuovo Presidente, infatti, sono di carattere storico e strutturale come lo è stata la sua vittoria. Nella difficile fase economica che sta attraversando l'Italia, al Sud ed in Sicilia c'è una crisi nella crisi. Che non è solo nei numeri e nella storia drammatica dei disoccupati, dei nuovi poveri o delle crisi aziendali.
Alla difficile congiuntura finanziaria che negli ultimi quattro anni ha bloccato il sistema economico mondiale, in Sicilia, come in altre regioni del Mezzogiorno, si aggiunge la fine di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il Sud dagli anni '80: quello basato sull'amministrazione pubblica come unica grande azienda dell'economia regionale, che con i suoi trasferimenti sosteneva una domanda continua per i settori delle costruzioni e del commercio. Con la crisi fiscale dello Stato e con la conseguente riduzione di trasferimenti, tale modello sta tramontando rapidamente e definitivamente. Senza che, al momento, se ne intraveda chiaramente un altro.
Non essendo intervenuti per tempo nel rafforzare l'industria manifatturiera regionale - ad esempio, con infrastrutture che ne migliorassero la produttività - si assiste adesso (come ci conferma la Svimez nell'ultimo Rapporto) ad una profonda e continua deindustrializzazione dell'isola. L'apparato industriale siciliano, nato tra gli anni '70 e '80 grazie agli ingenti trasferimenti dello Stato, non riesce ad adeguarsi alla competizione dei mercati internazionali. Il tasso di industrializzazione in Sicilia è la metà di quello medio europeo, ed un terzo di quello di paesi come la Polonia e la Romania. Il settore manifatturiero è stato quello più colpito: negli ultimi quindici anni si sono ridotte di oltre il 20% le industrie estrattive, del 41% le imprese di produzione di metalli, del 25% le industrie tessili, del 32,5% le attività di confezionamento di abbigliamento, del 40,7% le imprese di lavorazioni delle pelli, del 32,7% le industrie di mobili.
E così anche per il settore agricolo si impone la necessità di ripensare il modello di impresa finora prevalente.  Una classe di imprenditori agricoli (per due terzi vecchia e poco istruita) ha basato per molti anni la propria attività su coltivazioni intensive e contributi europei. Tale atteggiamento ha disincentivato le innovazioni di prodotto e di processo necessarie per rendere redditizia l'attività. Con l'apertura al libero scambio con i paesi del Mediterraneo (l'accordo tra l'UE ed il Marocco del febbraio di quest'anno è solo l'inizio di un processo già stabilito) questo modello sempre meno riuscirà a competere con i prezzi ed i salari dei paesi emergenti. Va riconsiderato, pertanto, il modello di impresa agricola, con figure di imprenditori giovani e qualificati, ristrutturandola in maniera moderna e multifunzionale: incentivando le produzioni agricole di qualità, la produzione di energia, la valorizzazione e la manutenzione del territorio, sostenendo le filiere delle produzioni locali e la vendita diretta.
Nel settore servizi, quello che occupa la maggior parte dei siciliani, se da una parte si intravede una crescita delle attività legate alla filiera turistica-ricreativa e dei servizi alla persona, dall'altra va segnalata la tendenza nell'ultimo decennio delle regioni meridionali a specializzarsi nei settori a minore valore aggiunto: commercio al dettaglio, agenzie immobiliari e finanziarie, call-center. Tutte attività dove la retribuzione, frutto di contratti precari legati ai risultati, spesso non supera le due euro l'ora (anche 75 centesimi in alcuni casi): una forma postmoderna di schiavitù. Se in Sicilia non è scoppiata una rivolta sociale, come in Grecia o in Spagna, è solo perché esiste ancora una forte rete sociale di sostegno, la flexicurity familiare, che compensa l'assenza di strumenti di sostegno al reddito universali come negli altri paesi europei.
In sostanza, una volta entrata in crisi il modello basato sull'economia assistita dai trasferimenti statali, l'economia della Sicilia si è sostanzialmente fermata, in attesa di una nuova prospettiva ancora da individuare.
Quali interventi adottare per ripartire? Innanzitutto va pensata una strategia per lo sviluppo che, nel breve periodo, faccia ripartire gli investimenti pubblici. Chi pensa, in fase di austerity, che il mercato da solo possa trovare la strada più adeguata per lo sviluppo, non tiene conto che i nostri competitor sono già ora più infrastrutturati di noi, e che senza adeguate risorse statali il passaggio da un'economia assistita ad un'economia di mercato può compromettere le fondamenta di qualsiasi modello di sviluppo: la disoccupazione di lungo periodo e l'emigrazione di giovani qualificati, se non interrotte, ridurranno ancora di più lo stock di capitale umano presente nella regione pregiudicando la competitività futura di tutta l'area.
Inoltre, aspetto poco sottolineato, va chiarito che per quanto riguarda la Sicilia e le altre regioni dell'obiettivo Convergenza le risorse per gli investimenti pubblici ci sono: circa 4 miliardi di fondi strutturali ancora devono essere impegnati nella nostra regione. A questi si aggiungono le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (gli ex Fas) ed i programmi di assistenza tecnica e finanziaria allo sviluppo (Jasper, Jeremie e Jessica) che, all'interno di una strategia coerente e concertata, possono rappresentare le risorse immediate per far ripartire l'economia siciliana. A condizione però il governo nazionale faccia la sua parte introducendo una deroga al Patto di stabilità interno (altrimenti i soldi non possono essere spesi) sia per le risorse di cofinanziamento dei fondi strutturali, che per quelle di provenienza nazionale, e che il nuovo governo regionale si impegni a concentrarle sulle infrastrutture materiali (strade, ferrovie, scuole, riqualificazione ambientale) e immateriali (conoscenza - istruzione, formazione, ricerca) fondamentali per lo sviluppo.
Infine, cercando di recuperare la capacità della politica di guardare lontano, va pensata una strategia di sviluppo per la Sicilia, ed in generale per le regioni del Mezzogiorno, che vada verso una specializzazione produttiva dei territori meridionali nei settori ad elevato valore aggiunto (energia, industria culturale, risorse ambientali, turismo di qualità, produzioni locali), unica condizione per competere nel mercato internazionale non su prezzi e salari, ma valorizzando risorse proprie non riproducibili in altri contesti.

Una sfida ambiziosa e difficile per il nuovo Presidente della Regione Siciliana. 
Ma con la quale, non solo la politica, ma tutta la società siciliana sarà costretta a misurarsi.

Dov’è finita la politica regionale unitaria?



  • UN QUADRO STRATEGICO DI SVILUPPO

La crescita dell’economia italiana è strettamente legata allo sviluppo delle Regioni meridionali e al recupero dei divari territoriali in termini di Pil, occupazione e infrastrutture. Il Quadro strategico nazionale del 2007 prevedeva una politica regionale di sviluppo destinata in modo specifico ai territori con squilibri economici e sociali. Poi è scoppiata la crisi. E per il Sud si sono ridotte non solo le risorse aggiuntive, ma anche quelle ordinarie. Rendendo difficile quell’inversione di tendenza indicata dalle proiezioni programmatiche del governo.
La crescita invocata dell’economia italiana è senza dubbio strettamente legata allo sviluppo delle Regioni meridionali e al recupero dei divari territoriali in termini di Pil, occupazione e infrastrutture. Con un Mezzogiorno a bassi livelli di produzione, anche se il centro-nord crescesse a tassi “europei”, il Pil nazionale rimarrebbe sempre intorno alla sua media degli ultimi dieci anni: poco sopra lo zero (0,2 per cento). (1)

Per accelerare i tassi di crescita delle regioni meridionali, nel 2007, in coincidenza con il ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007-2013, si stabilì di adottare una strategia di sviluppo che, per la prima volta, vedeva confluire nella stessa programmazione tutte le risorse destinate allo sviluppo delle aree “sottoutilizzate”: fondi comunitari, quote di cofinanziamento nazionale e risorse aggiuntive nazionali. (2) In totale, 124,7 miliardi di euro (60,3 di fondi strutturali e 64,4 di Fas), che nei successivi sette anni dovevano finanziare un’unica strategia di sviluppo per il Mezzogiorno, indicata nel Quadro strategico nazionale. (3)
Un documento, questo, nato dal processo partenariale che ha coinvolto comuni, province, Regioni e amministrazioni centrali nella definizione di scelte strategiche, priorità di intervento e modalità attuative della spesa per lo sviluppo. Tale approccio, definito politica regionale unitaria, aveva come “precondizioni per la sua stessa efficacia” l’intenzionalità dell’obiettivo territoriale e l’aggiuntività delle risorse. (4)
In sostanza, a differenza delle politiche ordinarie, che sono di regola orizzontali, la politica regionale di sviluppo sarebbe dovuta risultare destinata specificatamente a quei territori che presentavano squilibri economici e sociali. E per essere efficace, cioè per raggiungere l’obiettivo di ridurre i divari, le risorse impiegate avrebbero avuto carattere di distinzione e aggiuntività rispetto a quelle ordinarie. In base a queste “precondizioni” la ripartizione delle spese in conto capitale della politica regionale unitaria (la spesa aggiuntiva) sarebbe dovuta essere l’85 per cento per il Sud e il 15 per cento per il Centro-Nord, in modo che la quota totale delle spese in conto capitale (ordinarie più aggiuntive) per il Mezzogiorno sul totale nazionale avrebbe dovuto crescere fino al 45 per cento.
Se questo era l’impianto strategico nel 2007, la crisi economica ha modificato tutta l’impostazione finanziaria della politica regionale unitaria. La figura 1, che riporta la percentuale di spesa in conto capitale nelle Regioni meridionali sul totale nazionale, evidenzia come dal 2009 questa strategia sia sostanzialmente compromessa. La quota di spesa in conto capitale per il Sud è diminuita dal 35,4 al 31,2 per cento. In valore assoluto si è passati dai 22,4 miliardi investiti nelle regioni meridionali nel 2009 ai 15,1 miliardi del 2011.

A ridursi sono state non solo le risorse aggiuntive nazionali (i Fas), utilizzate in chiave anticiclica per altri interventi su tutto il territorio nazionale, ma anche le risorse ordinarie, la cui quota destinata al Mezzogiorno sul totale è passata dal 26,8 per cento del 2009 al 18,8 per cento del 2011 (figura 2), contravvenendo ad una delle “precondizioni” essenziali della politica regionale unitaria. Anche il Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno, presentato a Roma il 26 settembre, sottolinea come negli ultimi anni la strategia complessiva volta al riequilibrio economico, sociale e territoriale delle regioni meridionali sia completamente venuta meno, “essendo le risorse ordinarie un vero e proprio buco nero nello sviluppo del Mezzogiorno”. (5)



In sostanza, come nel precedente ciclo di programmazione, le risorse aggiuntive stanno sostituendo i tagli di quelle ordinarie, compromettendo di fatto l’efficacia della politica regionale unitaria. Ed è, infine, poco verosimile aspettarsi l’inversione di tendenza prevista dalle proiezioni programmatiche del governo (vedi figura 1), legata alla spesa residua dei fondi strutturali. Senza una variazione delle norme sul Patto di stabilità interno, i periodi necessari per la spesa supereranno senza dubbio il 2015.
(1) Nel decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la peggiore performance produttiva tra tutti i paesi dell’Unione Europea, con un tasso medio annuo di aumento del Pil di appena lo 0,2 per cento, a fronte dell’1,1 per cento rilevato per l’area dell’euro (Uem) – Rapporto annuale Istat 2010, Roma 23 maggio 2011.
(2) Legge 296 del 2006 (Finanziaria 2007), art. 1 commi 863-866.
(3) Previsto formalmente dall’art. 27 del regolamento generale sui Fondi strutturali europei.
(4) Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, ministero dello Sviluppo economico, Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, giugno 2007, pag. VII.
(5) Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno, Introduzione e sintesi, pag. 23, Il Mulino 2012.