domenica 26 maggio 2013

Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo


Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo

Piero David

Dopo i primi mesi dedicati più alla campagna elettorale che ai problemi della Sicilia, adesso per il Presidente Crocetta, i suoi assessori ed i parlamentari regionali, inizia il percorso per fare della nostra regione un "modello Sicilia" in termini di ripresa economica ed occupazionale. Le sfide che si troverà affrontare il nuovo Presidente, infatti, sono di carattere storico e strutturale come lo è stata la sua vittoria. Nella difficile fase economica che sta attraversando l'Italia, al Sud ed in Sicilia c'è una crisi nella crisi. Che non è solo nei numeri e nella storia drammatica dei disoccupati, dei nuovi poveri o delle crisi aziendali.
Alla difficile congiuntura finanziaria che negli ultimi quattro anni ha bloccato il sistema economico mondiale, in Sicilia, come in altre regioni del Mezzogiorno, si aggiunge la fine di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il Sud dagli anni '80: quello basato sull'amministrazione pubblica come unica grande azienda dell'economia regionale, che con i suoi trasferimenti sosteneva una domanda continua per i settori delle costruzioni e del commercio. Con la crisi fiscale dello Stato e con la conseguente riduzione di trasferimenti, tale modello sta tramontando rapidamente e definitivamente. Senza che, al momento, se ne intraveda chiaramente un altro.
Non essendo intervenuti per tempo nel rafforzare l'industria manifatturiera regionale - ad esempio, con infrastrutture che ne migliorassero la produttività - si assiste adesso (come ci conferma la Svimez nell'ultimo Rapporto) ad una profonda e continua deindustrializzazione dell'isola. L'apparato industriale siciliano, nato tra gli anni '70 e '80 grazie agli ingenti trasferimenti dello Stato, non riesce ad adeguarsi alla competizione dei mercati internazionali. Il tasso di industrializzazione in Sicilia è la metà di quello medio europeo, ed un terzo di quello di paesi come la Polonia e la Romania. Il settore manifatturiero è stato quello più colpito: negli ultimi quindici anni si sono ridotte di oltre il 20% le industrie estrattive, del 41% le imprese di produzione di metalli, del 25% le industrie tessili, del 32,5% le attività di confezionamento di abbigliamento, del 40,7% le imprese di lavorazioni delle pelli, del 32,7% le industrie di mobili.
E così anche per il settore agricolo si impone la necessità di ripensare il modello di impresa finora prevalente.  Una classe di imprenditori agricoli (per due terzi vecchia e poco istruita) ha basato per molti anni la propria attività su coltivazioni intensive e contributi europei. Tale atteggiamento ha disincentivato le innovazioni di prodotto e di processo necessarie per rendere redditizia l'attività. Con l'apertura al libero scambio con i paesi del Mediterraneo (l'accordo tra l'UE ed il Marocco del febbraio di quest'anno è solo l'inizio di un processo già stabilito) questo modello sempre meno riuscirà a competere con i prezzi ed i salari dei paesi emergenti. Va riconsiderato, pertanto, il modello di impresa agricola, con figure di imprenditori giovani e qualificati, ristrutturandola in maniera moderna e multifunzionale: incentivando le produzioni agricole di qualità, la produzione di energia, la valorizzazione e la manutenzione del territorio, sostenendo le filiere delle produzioni locali e la vendita diretta.
Nel settore servizi, quello che occupa la maggior parte dei siciliani, se da una parte si intravede una crescita delle attività legate alla filiera turistica-ricreativa e dei servizi alla persona, dall'altra va segnalata la tendenza nell'ultimo decennio delle regioni meridionali a specializzarsi nei settori a minore valore aggiunto: commercio al dettaglio, agenzie immobiliari e finanziarie, call-center. Tutte attività dove la retribuzione, frutto di contratti precari legati ai risultati, spesso non supera le due euro l'ora (anche 75 centesimi in alcuni casi): una forma postmoderna di schiavitù. Se in Sicilia non è scoppiata una rivolta sociale, come in Grecia o in Spagna, è solo perché esiste ancora una forte rete sociale di sostegno, la flexicurity familiare, che compensa l'assenza di strumenti di sostegno al reddito universali come negli altri paesi europei.
In sostanza, una volta entrata in crisi il modello basato sull'economia assistita dai trasferimenti statali, l'economia della Sicilia si è sostanzialmente fermata, in attesa di una nuova prospettiva ancora da individuare.
Quali interventi adottare per ripartire? Innanzitutto va pensata una strategia per lo sviluppo che, nel breve periodo, faccia ripartire gli investimenti pubblici. Chi pensa, in fase di austerity, che il mercato da solo possa trovare la strada più adeguata per lo sviluppo, non tiene conto che i nostri competitor sono già ora più infrastrutturati di noi, e che senza adeguate risorse statali il passaggio da un'economia assistita ad un'economia di mercato può compromettere le fondamenta di qualsiasi modello di sviluppo: la disoccupazione di lungo periodo e l'emigrazione di giovani qualificati, se non interrotte, ridurranno ancora di più lo stock di capitale umano presente nella regione pregiudicando la competitività futura di tutta l'area.
Inoltre, aspetto poco sottolineato, va chiarito che per quanto riguarda la Sicilia e le altre regioni dell'obiettivo Convergenza le risorse per gli investimenti pubblici ci sono: circa 4 miliardi di fondi strutturali ancora devono essere impegnati nella nostra regione. A questi si aggiungono le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (gli ex Fas) ed i programmi di assistenza tecnica e finanziaria allo sviluppo (Jasper, Jeremie e Jessica) che, all'interno di una strategia coerente e concertata, possono rappresentare le risorse immediate per far ripartire l'economia siciliana. A condizione però il governo nazionale faccia la sua parte introducendo una deroga al Patto di stabilità interno (altrimenti i soldi non possono essere spesi) sia per le risorse di cofinanziamento dei fondi strutturali, che per quelle di provenienza nazionale, e che il nuovo governo regionale si impegni a concentrarle sulle infrastrutture materiali (strade, ferrovie, scuole, riqualificazione ambientale) e immateriali (conoscenza - istruzione, formazione, ricerca) fondamentali per lo sviluppo.
Infine, cercando di recuperare la capacità della politica di guardare lontano, va pensata una strategia di sviluppo per la Sicilia, ed in generale per le regioni del Mezzogiorno, che vada verso una specializzazione produttiva dei territori meridionali nei settori ad elevato valore aggiunto (energia, industria culturale, risorse ambientali, turismo di qualità, produzioni locali), unica condizione per competere nel mercato internazionale non su prezzi e salari, ma valorizzando risorse proprie non riproducibili in altri contesti.

Una sfida ambiziosa e difficile per il nuovo Presidente della Regione Siciliana. 
Ma con la quale, non solo la politica, ma tutta la società siciliana sarà costretta a misurarsi.

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