Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo
Dopo i primi mesi dedicati più
alla campagna elettorale che ai problemi della Sicilia, adesso per il Presidente
Crocetta, i suoi assessori ed i parlamentari regionali, inizia il percorso per
fare della nostra regione un "modello Sicilia" in termini di ripresa
economica ed occupazionale. Le sfide che si troverà affrontare il nuovo
Presidente, infatti, sono di carattere storico e strutturale come lo è stata la
sua vittoria. Nella difficile fase economica che sta attraversando l'Italia, al
Sud ed in Sicilia c'è una crisi nella crisi. Che non è solo nei numeri e nella
storia drammatica dei disoccupati, dei nuovi poveri o delle crisi aziendali.
Alla difficile congiuntura
finanziaria che negli ultimi quattro anni ha bloccato il sistema economico
mondiale, in Sicilia, come in altre regioni del Mezzogiorno, si aggiunge la
fine di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il Sud dagli anni '80:
quello basato sull'amministrazione pubblica come unica grande azienda dell'economia
regionale, che con i suoi trasferimenti sosteneva una domanda continua per i
settori delle costruzioni e del commercio. Con la crisi fiscale dello Stato e
con la conseguente riduzione di trasferimenti, tale modello sta tramontando
rapidamente e definitivamente. Senza che, al momento, se ne intraveda chiaramente
un altro.
Non essendo intervenuti per tempo
nel rafforzare l'industria manifatturiera regionale - ad esempio, con
infrastrutture che ne migliorassero la produttività - si assiste adesso (come ci
conferma la Svimez nell'ultimo Rapporto) ad una profonda e continua
deindustrializzazione dell'isola. L'apparato industriale siciliano, nato tra
gli anni '70 e '80 grazie agli ingenti trasferimenti dello Stato, non riesce ad
adeguarsi alla competizione dei mercati internazionali. Il tasso di
industrializzazione in Sicilia è la metà di quello medio europeo, ed un terzo
di quello di paesi come la Polonia e la Romania. Il settore manifatturiero è stato
quello più colpito: negli ultimi quindici anni si sono ridotte di oltre il 20%
le industrie estrattive, del 41% le imprese di produzione di metalli, del 25%
le industrie tessili, del 32,5% le attività di confezionamento di
abbigliamento, del 40,7% le imprese di lavorazioni delle pelli, del 32,7% le
industrie di mobili.
E così anche per il settore
agricolo si impone la necessità di ripensare il modello di impresa finora
prevalente. Una classe di imprenditori
agricoli (per due terzi vecchia e poco istruita) ha basato per molti anni la
propria attività su coltivazioni intensive e contributi europei. Tale
atteggiamento ha disincentivato le innovazioni di prodotto e di processo
necessarie per rendere redditizia l'attività. Con l'apertura al libero scambio
con i paesi del Mediterraneo (l'accordo tra l'UE ed il Marocco del febbraio di
quest'anno è solo l'inizio di un processo già stabilito) questo modello sempre
meno riuscirà a competere con i prezzi ed i salari dei paesi emergenti. Va riconsiderato,
pertanto, il modello di impresa agricola, con figure di imprenditori giovani e
qualificati, ristrutturandola in maniera moderna e multifunzionale:
incentivando le produzioni agricole di qualità, la produzione di energia, la
valorizzazione e la manutenzione del territorio, sostenendo le filiere delle
produzioni locali e la vendita diretta.
Nel settore servizi, quello che
occupa la maggior parte dei siciliani, se da una parte si intravede una
crescita delle attività legate alla filiera turistica-ricreativa e dei servizi
alla persona, dall'altra va segnalata la tendenza nell'ultimo decennio delle
regioni meridionali a specializzarsi nei settori a minore valore aggiunto:
commercio al dettaglio, agenzie immobiliari e finanziarie, call-center. Tutte
attività dove la retribuzione, frutto di contratti precari legati ai risultati,
spesso non supera le due euro l'ora (anche 75 centesimi in alcuni casi): una
forma postmoderna di schiavitù. Se in Sicilia non è scoppiata una rivolta
sociale, come in Grecia o in Spagna, è solo perché esiste ancora una forte rete
sociale di sostegno, la flexicurity familiare, che compensa l'assenza di
strumenti di sostegno al reddito universali come negli altri paesi europei.
In sostanza, una volta entrata in
crisi il modello basato sull'economia assistita dai trasferimenti statali,
l'economia della Sicilia si è sostanzialmente fermata, in attesa di una nuova
prospettiva ancora da individuare.
Quali interventi adottare per
ripartire? Innanzitutto va pensata una strategia per lo sviluppo che, nel breve
periodo, faccia ripartire gli investimenti pubblici. Chi pensa, in fase di
austerity, che il mercato da solo possa trovare la strada più adeguata per lo
sviluppo, non tiene conto che i nostri competitor sono già ora più
infrastrutturati di noi, e che senza adeguate risorse statali il passaggio da
un'economia assistita ad un'economia di mercato può compromettere le fondamenta
di qualsiasi modello di sviluppo: la disoccupazione di lungo periodo e l'emigrazione
di giovani qualificati, se non interrotte, ridurranno ancora di più lo stock di
capitale umano presente nella regione pregiudicando la competitività futura di
tutta l'area.
Inoltre, aspetto poco
sottolineato, va chiarito che per quanto riguarda la Sicilia e le altre regioni
dell'obiettivo Convergenza le risorse per gli investimenti pubblici ci sono:
circa 4 miliardi di fondi strutturali ancora devono essere impegnati nella
nostra regione. A questi si aggiungono le risorse del Fondo per lo sviluppo e
la coesione (gli ex Fas) ed i programmi di assistenza tecnica e finanziaria
allo sviluppo (Jasper, Jeremie e Jessica) che, all'interno di una strategia
coerente e concertata, possono rappresentare le risorse immediate per far
ripartire l'economia siciliana. A condizione però il governo nazionale faccia
la sua parte introducendo una deroga al Patto di stabilità interno (altrimenti
i soldi non possono essere spesi) sia per le risorse di cofinanziamento dei
fondi strutturali, che per quelle di provenienza nazionale, e che il nuovo
governo regionale si impegni a concentrarle sulle infrastrutture materiali
(strade, ferrovie, scuole, riqualificazione ambientale) e immateriali (conoscenza
- istruzione, formazione, ricerca) fondamentali per lo sviluppo.
Infine, cercando di recuperare la
capacità della politica di guardare lontano, va pensata una strategia di
sviluppo per la Sicilia, ed in generale per le regioni del Mezzogiorno, che
vada verso una specializzazione produttiva dei territori meridionali nei
settori ad elevato valore aggiunto (energia, industria culturale, risorse
ambientali, turismo di qualità, produzioni locali), unica condizione per
competere nel mercato internazionale non su prezzi e salari, ma valorizzando
risorse proprie non riproducibili in altri contesti.
Ma con la quale, non solo la politica, ma tutta la società siciliana sarà costretta a misurarsi.
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