lunedì 2 giugno 2014


Un voto che può cambiare l'Europa


In genere il voto per le elezioni europee, più di quello per le politiche, non è mai stato solo un voto d'opinione, ma quasi sempre l'espressione di uno stato d'animo dell'elettorato. E' stato così anche in passato quando ad essere premiati nelle elezioni europee erano movimenti come la Rete o partiti non strutturati come i Radicali. Quando i temi del dibattito non sono locali, il voto riflette lo stato d'animo del Paese. E dopo una lunga crisi economica che dura da oltre cinque anni e che nelle politiche economiche europee non ha trovato risposte, era prevedibile una reazione dell'elettorato di tipo nazionalistica o populistica.
E' stato così anche in passato. Nella storia europea alle grandi crisi economiche è seguita sempre una fase politica reazionaria, dove la risposta alla crisi da parte della popolazione impoverita ed impaurita è stata quasi sempre irrazionale. Alla prima lunga recessione del 1873 segui la fase reazionaria di fine secolo, alla grande depressione del '29 seguì il dilagare in Europa di movimenti fascisti e nazisti. La crisi del 2008 ha allargato enormemente il consenso di partiti nazionalisti, ultraconservatori e razzisti.
In Francia, il Front National di Marine Le Pen col 26% è il primo partito, l'Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna è anche il primo partito con il 30,5%, i neonazisti di Alba Dorata hanno preso il 9% e sono il terzo partito in Grecia, in Danimarca il primo partito (Danish party) è nazionalista e contro gli immigrati, in Finlandia il partito nazionalista dei Veri Finlandesi è terzo col 13,2%, in Austria i populisti dell'FPO sono il terzo partito con il 19,9%, in Ungheria una formazione politica antisemita, Jobbik, col 15% è il secondo parti to dietro i conservatori.
Qual è la base elettorale di questi partiti nazionalisti? Quasi sempre ceti popolari, operai, ceti medi impoveriti e giovani disoccupati, poco istruiti, rancorosi e senza una consapevolezza politica dei problemi e delle soluzioni: la colpa è sempre dello straniero e dell'Europa che gli permette di circolare liberamente. In fasi recessive lunghe come quella che abbiamo attraversato, è il ceto medio impoverito che diventa politicamente il bacino di consenso dei partiti reazionari.
L'Europa, col suo eccesso di austerity, regole e burocrazia ha dato il suo contributo all'esasperazione di quella parte della popolazione più colpita dalla crisi. Se negli USA la reazione alla crisi è stata diversa, la ragione sta nelle diverse risposte che nei due continenti sono arrivate per contrastare gli effetti della crisi economica-finanziaria del 2008. La FED ed il governo Obama con una politica fiscale e monetaria espansiva, la BCE e la Commissione Europea sempre attente solo all'inflazione ed al rispetto dei parametri di stabilità finanziaria dei diversi Paesi dell'Unione.
Perché in Italia l'elettorato ha premiato il PD ed il suo segretario-premier con un consenso in termini percentuali storico? Innanzitutto per le stesse ragioni socioeconomiche che negli altri paesi hanno visto crescere il consenso dei partiti euroscettici. Con il famoso provvedimento degli 80 euro Renzi ha tranquillizzato e dato speranza proprio a quel ceto medio impoverito che, negli altri paesi, si è spostato su posizioni reazionarie. Quel ceto che negli ultimi sei anni ha visto ridursi sempre più il proprio potere d'acquisto, avvicinandosi sempre di più alla soglia di povertà, con i provvedimenti di Renzi ha percepito che si può sperare in un cambiamento di rotta, e che bisogna dare fiducia a questo nuovo premier. Se a questa ragione socioeconomica se ne aggiungono due politiche (la frantumazione del centrodestra e l'aggressività insulsa di Grillo) si comprende perché la congiuntura politica è stata favorevole al PD ed a Renzi.
Ovviamente questo non significa che il PD abbia aumentato strutturalmente il proprio consenso. Si tratta appunto di una favorevole congiuntura nella quale gli elettori hanno affidato le loro speranze nel progetto di Renzi. Per consolidare tale risultato il PD ed il suo premier devono riuscire a far uscire dalla stagnazione economica l'Italia con quelle riforme che permettano al Paese di superare i propri limiti strutturali (poca ricerca ed innovazione, produzioni a basso valore aggiunto, mercato del lavoro poco dinamico che valorizza troppo poco le competenze).
Ma il voto italiano è importante soprattutto per l'Europa. Sia per il fatto che è stato premiato un partito al governo decisamente europeista, mentre si sono arginati i consensi degli euroscettici. Ma sono soprattutto perché le dimensioni di tale consenso al Premier che guiderà come Presidente il prossimo semestre del Consiglio Europeo, per la prima volta da quando è nata l'UE, ci permetteranno di presentarci con forza ed autorevolezza davanti ai paesi dell'Unione ed a provare cambiare la politica economica adottata fino ad oggi dalle istituzioni europee.

Dai trattati di Maastricht in poi la politica economica europea si è attenuta sempre ai principi della scuola economica dominante dagli anni '80: i monetaristi. Secondo i quali lo Stato non deve intervenire in economia, lasciando ai mercati il compito di allocare efficientemente capitale e lavoro. Per tali ragioni la politica monetaria della BCE ha avuto sempre come obiettivo solo quello di tenere bassa l'inflazione (inflation targeting) e l'UE ha avuto pochi strumenti a disposizione nei casi di shock asimmetrici. La crisi economica del 2008 ha messo seriamente in discussione l'approccio monetarista. Senza una politica economica espansiva difficilmente l'UE raggiungerà i tassi di crescita degli USA. E una lunga stagnazione potrebbe aumentare ancora i consensi degli euroscettici e fare implodere definitivamente il progetto di un'Europa unita. Per evitare tutto ciò è necessario una maggiore integrazione: armonizzazione delle politiche fiscali e una vera Banca Centrale Europea. Ma soprattutto una nuova politica economica rivolta alla crescita dell'occupazione ed allo sviluppo dei territori. In questo contesto il ruolo dell'Italia, del PD-PSE e di Renzi può diventare decisivo. Se riusciremo ad essere all'altezza della sfida, la nuova Europa parlerà italiano!

venerdì 23 maggio 2014

Perché in queste elezioni europee è importante votare Partito Democratico?
  
Perché la sua proposta politica in tema di euro e di politiche economiche europee è senza dubbio la più convincente.

1) Innanzitutto perché il PD ha una linea chiara sull'euro. L'Europa e l'euro non sono in discussione, ma è la politica economica europea che deve cambiare: meno austerity e più investimenti per lo sviluppo. Fino ad oggi l'unico obiettivo della BCE è stato mantenere basa l'inflazione. Dopo questa lunga crisi economica l'obiettivo delle istituzioni comunitarie deve diventare sostenere lo sviluppo sostenibile.
L'uscita dall'euro per l'Italia rappresenterebbe probabilmente l'anticamera del default ed un immediato tracollo economico e di credibilità.  Chi pensa che fuori dall'euro si possa utilizzare la svalutazione della moneta come strumento per competere sui mercati internazionale, dimentica che l'alta inflazione (oltre ridurre il potere d'acquisto dei possessori di reddito ed erodere i risparmi) comporta anche elevati tassi d'interesse (per evitare che fuggano i capitali). Ed il problema dei tassi d’interesse alti non investe solo i privati nell’acquisto di beni durevoli (casa, automobile) ma soprattutto il governo nella vendita nei circa 400 milioni di euro l’anno di titoli di stato ad investitori nazionali ed esteri.
Più sono alti i tassi d’interessi e più è alto il costo del debito pubblico. Nel 2013, con un tasso circa del 5% abbiamo pagato interessi sul debito per circa 95 miliardi. Con tassi del 15%, il costo degli interessi sarebbe così elevato che il debito pubblico raddoppierebbe, passando da 2,1 a 4 mila miliardi di euro, in soli 5 anni. In sostanza, l’Italia dovrebbe dichiarare default in pochi anni. Negli anni ’80, proprio perché si adottò tale politica economica (cioè di una gestione allegra delle finanze pubbliche, con tassi di interesse e deficit di bilancio elevati), il debito pubblico italiano in rapporto al PIL passò dal 60% di inizio anni ’80 (in linea con gli altri paesi europei) al 123% del 1992, quando venne firmato il trattato di Maastricht.
Se poi per evitare il default si scegliesse di mantenere i tassi di interesse bassi, per impedire la fuga dei capitali bisognerebbe bloccare i flussi in uscita della nostra nuova moneta. In sostanza, nessuno potrebbe ritirare tutti i propri risparmi dalle banche, e nessuno potrebbe comprare valute estere. Neanche quelle imprese italiane che per produrre hanno bisogno di acquistare forniture all'estero.
Aggiungiamo che la conseguenza politica dell'uscita dell'Italia dall'euro sarebbe una crisi di tutta l'eurozona (l'Italia è la terza economia più grande) con l'elevata probabilità che l'euro si frantumi e che anche l'UE, nata con la moneta unica entri in una crisi di difficile soluzione.
2) Qui tocchiamo un secondo punto sull'UE e l'euro poco sottolineato. L'UE non nasce solo per ragioni economiche, ma è un processo lungo e complesso che comincia nel dopoguerra con la costruzione dei mercati dell'energia, del carbone ed in seguito di quello agricolo, ponendosi come obiettivo principale quello di stabilizzare un'area geografica, l'Europa, territorio di conflitti sanguinosi fino al 1945. Dai tempi dei romani, la fase di pace più lunga che ha attraversato l'Europa è proprio quella coincidente con il processo di integrazione del mercato comune continentale. Più si sono integrati i mercati e più si sono ridotti i conflitti. Pertanto l'UE nasce principalmente per ragioni politiche.
Quello che è necessario adesso è rafforzare ancora di più l'integrazione politica dell'UE, costruendo anche una politica estera comune ed armonizzando le politiche fiscali.
3) Ed infine, per cambiare la politica economica dell'UE bisogna superare le teorie economiche sulle quali si sono costruiti i vincoli di Maastricht e le regole di funzionamento della BCE. La teoria economica dominante negli anni '80 e '90, quando è stata definita la strategia di integrazione europea, era quella monetarista, secondo la quale lo Stato non deve intervenire nell'economia, lasciando ai mercati il compito di premiare i migliori e risolvere le crisi. La crisi economica finanziaria del 2008-2009 ha dimostrato che tale impostazione economica non è efficace nelle crisi economiche sistemiche che riducono fortemente la domanda aggregata. Mentre l'approccio adottato in USA dal governo Obama e dalla FED, politica monetaria e fiscale espansiva, ha permesso agli Stati Uniti di uscire dalla crisi rapidamente, recuperando totalmente la disoccupazione prodotta durante la crisi. Questa è la strada che anche l'Europa deve seguire per eguagliare i tassi di crescita USA.

Per questi obiettivi ambiziosi, in Europa bisogna dare forza ad un partito in grado di condizionare le scelte del PSE e del Parlamento Europeo. Questo partito, con tutte le difficoltà dei grandi partiti di massa, è ancora il PD.

lunedì 24 febbraio 2014

La fiducia in un altro PD



Quello di domenica è stato un momento molto importante per l'area Civati. Al netto della posizione che poi è stata presa dai deputati e dai senatori "civatiani", l'appuntamento  si è presentato come un secondo momento fondativo per questa componente del PD. Un'area che è partita da zero, e  che dopo sei mesi di congressi è diventata grande, registrando una crescita numerica e politica. Ma che adesso deve dimostrare anche di essere matura e decidere quale prospettiva scegliere per il proprio futuro politico. Il voto di fiducia al governo è la conseguenza della strada che si vuole percorrere.
Bisogna cercare di capire quale obiettivo si pone l'area Civati per i prossimi anni. Se la scelta è quella esclusivamente di manifestare le proprie opinioni, senza tuttavia pensare di incidere nelle scelte, senza la possibilità di introdurre elementi di cambiamento nella politica e nella società, allora la decisione migliore è quella di uscire dal PD e trovarsi un altro partito dove fare politica, o fondarne uno nuovo.
Ma bisognerebbe anche chiedersi perché questa soluzione dovrebbe avere più fortuna politica di quelle che abbiamo già visto negli anni passati. Qualcuno si ricorda l'area Mussi? Era una componente dei DS contraria alla nascita del PD, più consistente in termini di iscritti, dirigenti e deputati dell'area Civati. Con l'uscita dai DS quell'area si è dissolta. Si potrebbe osservare che forse Mussi non era un leader carismatico in grado di realizzare un partito a sinistra del PD. Ebbene Vendola ha queste caratteristiche, e Sel ha un programma simile a quello che vorremmo realizzare noi, ma il risultato è comunque marginale.
Io penso che la strada che noi dobbiamo prendere non sia questa, costituire l'ennesimo partitino di sinistra che si limita a fare testimonianza politica. Credo che, se siamo ancora convinti, come lo eravamo sei mesi fa, che il PD sia ancora una risorsa, e che per cambiare la società italiana dobbiamo cambiare il PD, allora questa è l'occasione giusta per diventare noi  il punto di riferimento politico per l'opinione politica di sinistra.
Sia per i tanti dentro il PD che non condividono la scelta di Renzi e che in questo momento ci vedono come l'unica opposizione (Cuperlo con il suo accordo ci ha aperto una prateria), sia per quelli che fuori dal nostro partito, guardano con interesse le nostre posizioni, e che se la nostra linea diventasse maggioritaria potrebbero pensare anche loro di entrare a darci una mano. E questo potrebbe avvenire anche in tempi rapidi: 15 mesi fa Renzi era minoranza nel PD, un anno dopo ha raccolto oltre il 70% dei consensi, dimostrando l'estrema mobilità dell'elettorato del PD. In questo momento molti nel PD guardano a noi come gruppo dirigente del futuro. Se non sbagliamo troppe mosse potremmo diventarlo.
Ma se la strada deve essere questa dobbiamo attrezzarci. Per essere un autorevole punto di riferimento nel Pd dobbiamo allargare il nostro gruppo dirigente con le migliori personalità che ancora questo partito possiede. E, soprattutto, dobbiamo strutturandoci meglio sul territorio, promuovendo la discussione politica nei circoli, e incalzando il PD sui temi politici per noi importanti.
Ma dobbiamo diventare punto di riferimento a sinistra anche fuori dal PD, nel Parlamento e nella società, aprendo un tavolo permanente di confronto con tutte quelle forze politiche che vogliono  cambiare, nella nostra direzione, questo Paese. Questo significa che nelle sedi istituzionali, alle scadenze poste dall'agenda Renzi, bisogna arrivarci dopo aver discusso le nostre proposte con SEL ed i dissidenti del M5S. Solo dopo aver coinvolto queste forze in una discussione programmatica si potrà anche convincerle a fare un percorso assieme a noi ed a diventare l'alternativa al NCD nella maggioranza di governo.
In conclusione, fiducia al PD. Perche pensiamo che questo partito possa ancora diventare un grande partito di massa di centro-sinistra, il soggetto di cambiamento di cui ha bisogno il nostro paese. Non è con un si o un no ad un provvedimento che si realizzerà il cambiamento. La ricostruzione della sinistra in Italia, un partito con una nuova visione del mondo alternativa a quella dominante, l'egemonia culturale e politica, sia nel partito che nella società, richiedono processi lunghi e pratiche quotidiane, un'analisi approfondita della situazione attuale e delle proposte praticabili per risolverne i problemi.
Se lavoriamo con maturità ed impegno, continuando a mantenere vivo il rapporto che abbiamo costruito con l'elettorato di centro-sinistra, riusciremo a cambiare il PD ed a rendere migliore la società italiana.

Piero David

mercoledì 8 gennaio 2014


Perché allo Stato conviene legalizzare


Le politiche proibizioniste sugli stupefacenti non sono riuscite a ridurne il consumo, che negli ultimi anni è risultato in crescita per tutte le sostanze ed in tutti i Paesi. Nonostante le attività di contrasto, i proventi del mercato degli stupefacenti per le organizzazioni criminali mondiali rimangono molto elevati. La regolamentazione di tale mercato, in termini di costi e benefici per la collettività, determinerebbe benefici netti consistenti, derivanti soprattutto dall'emersione di transazioni, in questo momento, illegali, che invece potrebbero essere contabilizzate nel Pil ufficiale, con effetti rilevanti in termini di bilancio pubblico e di performance degli indicatori di stabilità finanziaria.


1. Introduzione
    La Global Commission on Drug Policy dell’ONU ha ammesso che “La guerra globale alla droga è fallita, con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo”, invitando i governi a sperimentare “forme di regolarizzazione che minino il potere delle organizzazioni criminali e salvaguardino la salute e la sicurezza dei cittadini”[1].
  I dati sul consumo di stupefacenti nel mondo evidenziano, infatti, come questo sia in crescita per tutte le sostanze ed in tutti i Paesi. A livello globale, la UNODC (2012) stima che nel 2010 tra 153 milioni e 300 milioni di persone di 15-64 anni (3,4-6,6 per cento della popolazione mondiale in quella fascia di età), abbiano utilizzato una sostanza illecita, almeno una volta nel corso dell'anno precedente. La droga più diffusa è la cannabis, in crescita negli ultimi anni, mentre restano stabili le altre sostanze. Sempre l’UNODC stima che, nonostante la continua attività di contrasto, considerando solo il traffico di droga, nel 2009 i proventi a livello globale per le organizzazioni criminali siano stati circa 870 miliardi di dollari, pari a 1,5% del prodotto interno lordo mondiale. I più alti guadagni per le organizzazioni criminali a livello mondiale provengono dal traffico di droga e ammontano a circa il 50% di tutti i proventi dei crimini transnazionali, ovvero dallo 0,6% allo 0,9% del prodotto interno lordo mondiale.
  Questo bilancio negativo della proibizione, insieme alla sempre maggiore necessità dei governi degli Stati più sviluppati ad aumentare il proprio gettito fiscale senza ricorrere ad ulteriori imposizioni su redditi, imprese e immobili, hanno rilanciato il dibattito su un'ipotesi di regolamentazione del mercato degli stupefacenti. Soprattutto negli USA, dove in uno Stato, la California, si è votato nello scorso novembre un referendum per abolire il regime di proibizione delle droghe leggere, permettendone coltivazione e vendita.
 Il dibattito si è concentrato sul calcolo dei benefici fiscali per uno Stato che intendesse passare da un regime di proibizione ad uno di depenalizzazione o legalizzazione delle droghe, soprattutto quelle leggere, e sugli effetti che tale cambiamento avrebbe sui prezzi e sui consumi delle sostanze stupefacenti.
Ma il beneficio fiscale è solo parte dell'utilità complessiva che uno Stato può trarre dal passaggio dalla proibizione alla legalizzazione. La regolamentazione del mercato degli stupefacenti, infatti, si lega strettamente alla contabilità ufficiale della finanza pubblica, in quanto, fino a questo momento, le regole concordate a livello internazionale nel Sec95 per la contabilità nazionale non includono nel calcolo del Pil, e di conseguenza di tutti gli indicatori di stabilità dei conti pubblici di uno stato, le attività illegali, anche se queste rappresentano ormai una parte rilevante dell'economia degli stati sviluppati. Infatti, mentre il sommerso economico, come è noto, viene stimato e contabilizzato nel calcolo del Pil nazionale, l'economica illegale, pur rappresentando una percentuale consistente di transazioni, non viene inclusa nei conti nazionali. Alla luce di ciò, questo studio, concentrandosi sul caso italiano, tenta di sistematizzare costi e benefici della legalizzazione del mercati degli stupefacenti in Italia introducendo il valore aggiunto rappresentato da tale mercato, finora illegale, nella contabilità ufficiale del Pil nazionale.
Ardizzi et al. (2012) stimano che l'economia "non osservata"[2] in Italia abbia rappresentato nel 2008 il 31,1% del Pil, crescendo di 6,4 punti percentuali in soli tre anni (dal 2006 al 2008). In particolare, tale studio disaggrega l’economia non osservata in due componenti: 1) il sommerso economico (le transazioni legali ma nascoste al fisco); 2)l'economia illegale (le attività di produzione di beni e servizi la cui vendita, distribuzione o possesso sono proibite dalla legge, e le attività che, pur essendo legali, sono svolte da operatori non autorizzati). Il primo in Italia viene stimato dagli autori nel periodo 2005- 2008 in una media del 16,5% del Pil, valore confermato anche da un'altra ricerca dell'Istat[3] (2011) che valuta i flussi di tali transazioni in Italia oscillanti tra un minimo di 255 miliardi di euro e un massimo di 275 miliardi nel 2008, pari rispettivamente al 16,3% e al 17,5% del prodotto interno lordo. L'economia illegale, invece, stimata  secondo il metodo del Currency Demand Approach (Cda), rappresenterebbe in media tra il 2005 ed il 2008 circa l'11% del Pil italiano, in crescita di 3 punti percentuali tra il 2006 ed il 2008. Valore anche questo confermato dai dati Eurispes (Danna 2011)[4], che per il nello stesso periodo ha valutato in oltre 175 miliardi di euro il volume di affari da attività illegali, corrispondente all’11,3% del PIL.
L’originalità di questa ricerca riguarda soprattutto due aspetti della questione. Il primo riguarda il beneficio in termini di Pil determinato dalla legalizzazione del mercato degli stupefacenti, poiché sposterebbe una parte molto rilevante di produzione e transazioni, per il momento non contabilizzati perché illegali, dai bilanci delle organizzazioni criminali a quelli delle finanze pubbliche, consentendo un notevole miglioramento della performance degli indicatori debito/pil e deficit/pil. A differenza di quanto affermato in letteratura - ove si sostiene che il vantaggio della legalizzazione sia circoscritto al maggior gettito ricavato dalla produzione e dalla vendita delle sostanze stupefacenti, ed alle minori spese per il sistema di repressione del traffico - noi mettiamo in evidenza la creazione di nuovo valore aggiunto dalla regolamentazione del mercato degli stupefacenti. Il secondo aspetto riguarda quale mercato legalizzare. Quasi tutti gli autori si concentrano sulla legalizzazione della marijuana, o in generale delle droghe leggere. Ma gli effetti della regolamentazione sarebbero ancora maggiori se venisse regolamentato l'intero mercato delle droghe, sia leggere che pesanti.
Il lavoro è così strutturato. Dopo aver esposto una breve rassegna della letteratura sul tema (par. 2), si presenta una nostra variante al modello di Kilmer et al. (2010) volta a misurare L'impatto netto della regolamentazione del mercato degli stupefacenti (par. 3). Nell’ultimo paragrafo (par. 4), infine, saranno esposte alcune riflessioni conclusive.

2. La letteratura più recente
Tra i contributi al dibattito più recenti su costi e benefici della legalizzazione delle droghe (Becker et al. 2006, Clements and Zhao 2009, Babor et al. 2010, Pacula 2010, Pudney 2010, Reuter 2010, Werb et. al. 2010, Kilmer et. Al. 2010, Miron and Waldock 2010, MacCoun 2011, Williams et. al. 2011, Kochenderfer et al. 2011, Caulkins et al. 2012, Van Ours 2012), la maggior parte (Clements and Zhao 2009, Caulkins 2010, Pacula 2010, Caulkins et al. 2012) si concentrano sugli effetti derivanti dalla legalizzazione delle droghe, soprattutto della marijuana,  sul prezzo della sostanza (decisamente più ridotto nel mercato legale per la diminuzione del rischio per produttori e consumatori, la maggiore automazione e le economie di scala introducibili nel processo di produzione legale, Caulkins 2010, Miron and Waldock, 2010) e sull'elasticità della domanda di droghe rispetto al prezzo che ci consente di valutare la risposta dei consumatori alla riduzione di prezzo (secondo Pacula, 2010, gli utenti regolari di droghe leggere dovrebbero aumentare del 2,5% per ogni riduzione del 10%; Clements e Zhao, 2009,  hanno esaminato i dati provenienti dall' Australia stimando l'elasticità della domanda rispetto al prezzo a - 0,40; per Caulkins, 2010, è difficile valutare quanto possa aumentare il consumo; secondo Boermans, 2010, il caso olandese dimostra come la legalizzazione della marijuana non produce effetti sostanziali sul consumo; per Van Ours and Williams, 2007, un prezzo inferiore abbassa l'età di iniziazione, ma non ha alcun effetto sulla durata del consumo di cannabis) e quindi anche le possibili ricadute sui costi sanitari legate al possibile aumento dei consumi. Becker et al. 2006 presentano un modello che assume piena concorrenza e quindi zero profitti attesi e sostengono che la proibizione non abbia avuto come conseguenza quella della riduzione dei consumi, ma esclusivamente l'effetto di aumentare i costi di produzione e di consumo degli stupefacenti, e le spese per la repressione del fenomeno: in sostanza una riduzione del benessere collettivo. E concludono affermando che, in alcune condizioni, la proibizione è meno efficace di un regime di politica in cui le droghe vengono legalizzate e tassate. Alcuni autori si soffermano sugli effetti della legalizzazione in alcuni paesi, principalmente l’Olanda, (MacCoun, 2011, sostiene che il sistema olandese dei coffee-shops potrebbe essere stato responsabile della separazione dei mercati delle droghe leggere e pesanti, e piuttosto che aumentare il passaggio dal consumo di droghe leggere a quelle pesanti può avere ridotto questo passaggio; secondo Reuter, 2010, la commercializzazione nei Paesi Bassi può aver portato ad un aumento degli utenti, ma l'accesso non ha portato ad un aumento del consumo per la popolazione olandese. Korf, 2002, indica che l'uso di cannabis nei Paesi Bassi mostra tendenze che sono molto simili a quelle di altri paesi europei che non hanno depenalizzato la cannabis) e la scelta di quali droghe mantenere illegali e quali legalizzare (Conant e Maloney, 2010).
Altri autori (Kochenderfer et al. 2011, Kilmer et. al. 2010, Miron and Waldock, 2010), invece, approfondiscono soprattutto l'aspetto economico del problema, valutando tutte le implicazioni fiscali derivanti dalla legalizzazione delle droghe leggere. Kochenderfer et al. 2011 sostengono che la legalizzazione di produzione e vendita della marijuana consentirebbe una modesta riduzione dei costi per la repressione ed un elevato gettito fiscale che, tuttavia, difficilmente potrebbe essere cosi importante da convincere l'opinione pubblica a cambiare idea su un tabù che dura da secoli. Kilmer et al. (2010) costruiscono un diagramma per valutare e sistematizzare gli effetti della legalizzazione della marijuana negli USA e l'impatto netto per il bilancio statale. Ai benefici della legalizzazione derivanti dai risparmi per lo Stato, vengono aggiunti i costi per la nuova regolamentazione. Viene stimato poi per il livello di tassazione migliore e i costi per prevenire la frode fiscale, oltre le entrate fiscali derivanti dalla vendita legale di marijuana. Viene anche stimato come potrebbe cambiare il consumo rispetto alla variazione del prezzo della sostanza stupefacente nel mercato legale. Gli autori concludono il lavoro sostenendo che con la legalizzazione della marijuana il prezzo di vendita al dettaglio, imposte escluse, si ridurrà, probabilmente di oltre l'80 per cento. Il prezzo finale per i consumatori dipenderà in larga misura dalle tasse. Il consumo dovrebbe aumentare, ma non è chiaro quanto, perché non si conosce né la forma della curva di domanda, né il livello di evasione fiscale (che riduce i ricavi per lo Stato e per i produttori ed i prezzi per i consumatori). L'impatto netto sul bilancio statale è incerto, perché le variabili sono molteplici. Miron and Waldock sostengono, invece, che la legalizzazione della droga negli USA produrrebbe una riduzione di spesa pubblica, derivante dalla legalizzazione del mercato delle droghe (forze dell'ordine, magistratura e sistema carcerario), di circa 41,3 miliardi di dollari l'anno ed, inoltre, genererebbe un gettito fiscale di circa 46,7 miliardi di dollari l'anno grazie alla tassazione di produzione e vendita degli stupefacenti applicando le aliquote utilizzate per il tabacco.

3. Un modello logico per valutare costi e benefici della legalizzazione del mercato degli stupefacenti.
Anche se non è possibile quantificare analiticamente l'impatto netto della legalizzazione del mercato degli stupefacenti (essendo un mercato illegale sono troppo limitati i dati a disposizione), è possibile invece costruire un modello logico per valutare l'effetto complessivo della regolamentazione applicata, sistematizzando costi e benefici e comparandone i diversi pesi.



Il modello, ricalcando il lavoro di Kilmer et al. (2010) sulla legalizzazione della marijuana, può essere rappresentato con un diagramma (Fig.1) nel quale sistematizzare costi e benefici economici dell'abolizione delle pene e delle sanzioni sulla produzione, vendita e possesso degli stupefacenti.
L'impatto netto della regolamentazione del mercato degli stupefacenti si può determinare confrontando benefici e costi
IN = B - C
dove IN, l'impatto netto della legalizzazione del mercato degli stupefacenti, risulta dalla differenza tra i benefici (B) ed i costi (C). Cerchiamo di analizzare tali variabili in maniera dettagliata. Partiamo dai costi.
I costi complessivi della legalizzazione del mercato degli stupefacenti possono essere divisi in due tipologie: costi diretti e costi indiretti. I primi sono legati alla regolamentazione del nuovo mercato legale (struttura dell'agenzia per la gestione di produzione e vendita, controllo rispetto legislazione, sensibilizzazione ed informazione dei consumatori – Kilmer et al., 2010), e quantitativamente possono essere assimilati ai costi sostenuti per la regolamentazione del consumo di tabacco e sigarette, che hanno una regolamentazione molto simile a quella in ipotesi. I costi indiretti dipendono invece dall'aumento dei consumi di sostanze stupefacenti in seguito alla legalizzazione. Un aumento dei consumi potrebbe portare ad un aumento dei costi sanitari. Come riportato in precedenza, la letteratura sull'argomento non ha una posizione prevalente su come possa variare la domanda di stupefacenti in seguito alla legalizzazione del mercato. Secondo Pacula (2010), gli utenti regolari di droghe leggere dovrebbero aumentare del 2,5% per ogni riduzione del 10%; per Caulkins (2010) è difficile valutare quanto possa aumentare il consumo; secondo Boermans (2012) il caso olandese dimostra come la legalizzazione della marijuana non produca effetti sostanziali sul consumo; per Van Ours and Williams (2007) un prezzo inferiore abbassa l'età di iniziazione, ma non ha alcun effetto sulla durata del consumo di cannabis. Pertanto una quantificazione dei costi sanitari legati ad un possibile aumento della domanda di stupefacenti in seguito alla legalizzazione del mercato non è possibile.
 I  benefici della regolamentazione del mercato degli stupefacenti sono molteplici e riguardano anche aspetti non quantificabili economicamente. Li possiamo dividere in benefici strettamente legati alla regolamentazione e quantificabili Bdir, e benefici non quantificabili legati indirettamente alla filiera degli stupefacenti Bind (esternalità positive).

B = Bdir + Bind

I benefici diretti sono sostanzialmente tre: 1) la riduzione delle spese statali impiegate per la proibizione della produzione e della vendita degli stupefacenti (G); 2) un maggiore gettito fiscale derivante dalla tassazione della produzione e della vendita delle sostanze (T);  3) l'emersione della produzione e delle transazioni effettuate nel mercato illegale degli stupefacenti, e pertanto la crescita quantitativa del Pil ufficiale (Y).

                                                                              Bdir =      G + T + Y

Per quanto riguarda la riduzione delle spese statali per la proibizione della produzione e della vendita (G), si tratta principalmente dei minori costi che forze dell'ordine (GP), magistratura (GM) e sistema carcerario (GA) dovrebbero sostenere se venisse cancellato il reato di produzione e vendita di sostanze stupefacenti.

G = GP + GM + GA

Il gettito fiscale (T) deriverebbe dalla tassazione della produzione e della vendita degli stupefacenti, in maniera analoga a quanto avviene con l'alcool e col tabacco. Miron and Waldock (2010) hanno indicato una metodologia per stimare gettito fiscale T e risparmi di spesa G. Per quanto riguarda i minori costi per l'amministrazione si utilizza la seguente procedura: si calcola la percentuale di arresti per le violazioni di droga sul totale e si moltiplica tale percentuale per la componente del bilancio statale destinata alle forze dell’ordine (GP); si stima la percentuale di procedimenti per crimini legati agli stupefacenti e si moltiplica tale percentuale per la componente del bilancio statale destinata alla giustizia civile e penale (GM); si stima la percentuale di carcerati per reati legati al traffico di stupefacenti e si moltiplica tale percentuale per la componente del bilancio statale destinata alla gestione delle carceri (GA).
La somma di queste componenti stima la riduzione statale complessiva di spesa derivante dalla legalizzazione del mercato delle droghe. A questi benefici si aggiunge in gettito fiscale derivante dalla tassazione di produzione e vendita degli stupefacenti applicando le aliquote utilizzate per il tabacco. Lo studio di Miron and Waldock conclude che la legalizzazione della droga negli USA produrrebbe una riduzione di spesa pubblica di circa 41,3 miliardi di dollari l'anno e genererebbe un gettito fiscale di circa 46,7 miliardi di dollari l'anno.
Secondo uno studio dell’Università “La Sapienza” (Rossi, 2009), che utilizza tale metodologia per il caso italiano, si stima un beneficio fiscale annuale di quasi 10 miliardi euro dalla legalizzazione del mercato degli stupefacenti: in particolare, l’erario risparmierebbe circa 2 miliardi all’anno di spese per l’applicazione della normativa proibizionista (polizia, magistratura, carceri), ed incasserebbe circa 8 miliardi all’anno dalle imposte sulle vendite (5,5 dalla sola cannabis).
Relativamente ai risparmi di spesa va considerata, comunque, l'osservazione avanzata da Caulkins (2010) e Kochenderfer et al. (2011) che evidenziano come, almeno nel breve periodo, i risparmi di spesa G sarebbero minori di quanto previsto dal modello di Miron and Waldock, poiché i soggetti delle forze dell'ordine, della magistratura e del sistema carcerario impegnati nella repressione dei reati legati al mercato degli stupefacenti, anche con meno arresti, meno processi e meno carcerati rimarrebbero comunque nell'organico della pubblica amministrazione. Solo nel medio-lungo periodo, aggiungiamo noi, potrebbero divenire tagli strutturali delle piante organiche e risparmi di spesa consistenti. Va tuttavia considerato che tali soggetti, non dovendosi occupare più degli illeciti legati alla droga, potrebbero concentrarsi su altri reati, rendendo più efficiente il sistema repressivo, giudiziario e carcerario.
L'ultima componente dei benefici diretti - l'elemento originale di questo paper - è l'emersione di quella componente del Pil che non viene contabilizzata nelle statistiche ufficiali derivante dalla produzione e dalle transazioni effettuate nel mercato illegale degli stupefacenti (Y). Infatti, mentre il sommerso economico (le transazioni legali, ma nascoste al fisco) viene contabilizzato nel calcolo del Pil nazionale, l'economia illegale, pur rappresentando una percentuale elevata della produzione complessiva, circa l'11% del Pil in Italia (Ardizzi et. Al., 2012), non viene inclusa nei conti nazionali. La componente di economia illegale relativa al traffico di stupefacenti è molto elevata in Italia. Secondo alcuni studi rappresenta per la criminalità organizzata il business principale, con un fatturato annuo di circa 60 miliardi di euro (Sos Impresa 2009). Stime più prudenti forniscono un ricavo complessivo nel 2010 pari a circa 24 miliardi di euro (Fabi et al., 2011).
La legalizzazione del mercato degli stupefacenti farebbe crescere il Pil ufficiale di una quantità equivalente alla produzione finale annua in valore dell'intera filiera delle droghe con sede nel territorio nazionale. Infatti questa crescita di valore aggiunto potrebbe essere minore se la produzione avvenisse all'estero e solo la vendita nel territorio nazionale. Ma considerato il regime proibizionista, e pertanto più costoso, degli altri paesi, è verosimile aspettarsi una rapida crescita della produzione interna.
Il contributo di tale componente al bilancio pubblico è molto consistente, poiché la crescita del Pil determina la riduzione dei rapporti deficit/pil e debito/pil che costituiscono gli indicatori principali per valutare la solidità finanziaria ed economica di uno Stato, e che condizionano fortemente il costo del servizio del debito pubblico. Inoltre, considerato che nel caso italiano il rapporto debito/pil dovrà essere necessariamente ridotto di un ventesimo l'anno, in seguito al Fiscal Compact, applicando nuove tasse o nuovi tagli di spesa e deprimendo ancora di più l'economia, riuscire a trovare un'altra strada meno dolorosa, socialmente ed economicamente, rappresenta un ulteriore beneficio indiretto da aggiungere nel nostro modello.
Considerando che il ricavato del traffico di stupefacenti è stimato tra 60 miliardi (stima alta Sos Impresa) e 24 miliardi (Fabi et al. 2011), la sola legalizzazione produrrebbe un aumento percentuale del Pil annuo italiano tra il 2,15% ed il 4,43%. Inoltre, ipotizzando che a) lo stock di debito e di Pil si mantengano costanti nel tempo; b) i ricavi delle transazioni effettuate nel mercato degli stupefacenti vengano contabilizzati nell'economia legale; c) e stimando in circa 10 miliardi il gettito fiscale proveniente dalla tassazione di produzione e vendita delle sostanze; sotto tali ipotesi, nel 2012, il rapporto debito/pil si ridurrebbe di 5,1 punti (ipotesi alta) o di 2,5 punti (ipotesi bassa). Basterebbe pertanto la sola legalizzazione del mercato degli stupefacenti per rispettare le previsioni del Fiscal Compact in Italia.
Infine, per quanto riguarda i benefici indiretti richiamati nel modello, ne possiamo indicare due tipologie, quelli derivanti da un utilizzo alternativo delle risorse liberate dalla legalizzazione e quelli legati all'aumento del benessere complessivo della collettività.
Tra i primi possiamo inserire, come accennato in precedenza, sia la liberazione di risorse di forze dell'ordine, magistratura e addetti al sistema carcerario che possono concentrarsi su altri reati e migliorare l'efficienza del sistema giudiziario e carcerario; sia le risorse non più necessarie per raggiungere gli obiettivi richiesti dal Fiscal compact. Tra i secondi possiamo annoverare la maggiore informazione sulle sostanze acquistate e i probabili minori costi sanitari, la riduzione dei reati e della violenza connessa al traffico degli stupefacenti, minori introiti per le organizzazioni criminali e minori capitali per distorcere i mercati legali (usura, riciclaggio, concorrenza sleale), aumento del numero di occupati regolari, miglioramento delle condizioni carcerarie dei detenuti.


Conclusioni

In conclusione, il mercato degli stupefacenti rappresenta in questo momento il principale business per le organizzazioni criminali, nonostante decenni di repressione e sanzioni. La politica di proibizione non è riuscita a ridurre il consumo delle droghe, ma ha avuto come principale effetto quello di aumentarne i costi. Un intervento di regolarizzazione del mercato degli stupefacenti, con modalità simili a quelle applicate al tabacco, avrebbe elevati benefici economici. La regolamentazione e la legalizzazione di tale mercato, in termini di costi e benefici per la collettività, determinerebbe benefici netti consistenti, derivanti soprattutto dall'emersione di transazioni, in questo momento, illegali. Il modello presentato in questo lavoro ha cercato di sistematizzare costi e benefici della regolarizzazione, evidenziandone l’impatto netto per la collettività. Alle variabili prese in esame dalla letteratura precedente abbiamo aggiunto un fattore che tenesse conto della contabilizzazione del mercato degli stupefacenti nel Pil ufficiale. Tale componente ha effetti rilevanti in termini di bilancio pubblico e di performance degli indicatori di stabilità finanziaria. Tale approccio potrebbe essere esteso ad altre componenti dell’economia illegale che presentano caratteristiche simili al mercato degli stupefacenti, come, ad esempio, il mercato della prostituzione.
L’applicazione del modello presentato in questo lavoro sugli stupefacenti ad altri mercati illegali può rappresentare uno spunto di analisi per ulteriori ricerche su economia illegale e regolamentazione pubblica.

Traduzione dell'articolo
P. David, F. Ofria, Non-observed economy and public finance: the impact of legal drug market, Quality - Access to Success, Vol. 14 - no. 134 Supplement June 2013 (ISSN 1582-2559);


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[2] La denominazione di "economia non osservata" è basata sulle definizioni internazionali contenute nel Sistema Europeo dei Conti Nazionali del 1995 e nell’Handbook for Measurement of the Non-observed Economy dell’Ocse.
[3] Rapporto finale sull'attività del gruppo di lavoro Economia non osservata e flussi finanziari guidato dal presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, nell'ambito del cantiere per la riforma fiscale, 14 luglio 2011.
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[4]http://www.eurispes.it/index.php?option=com_content&view=article&id=197:rapporto-italia-2008&catid=40:comunicati-stampa&Itemid=135