domenica 26 maggio 2013

Rifare il PD in Sicilia


Rifare il PD in Sicilia

di Piero David


Dopo una lunga stagione elettorale e con la nascita del governo Letta, si apre una nuova e difficile fase per il Partito Democratico.
L'elezione del Presidente della Repubblica ha evidenziato le contraddizioni di origine del PD, la mancanza di un profilo identitario, la balcanizzazione dei gruppi dirigenti. Ma proprio le tensioni alle quali è stata sottoposta la struttura del partito a tutti i livelli, e la sua sostanziale tenuta, ha mostrato chiaramente come il punto di arrivo e di ripartenza della sinistra in Italia resti comunque il PD. Non ci sono gli spazi per scorciatoie politiche o partitini. La strada, impervia ma necessaria, è quella di cambiare questo partito, trasformandolo da un amalgama mal riuscito in una comunità con un'identità precisa, con una struttura presente nel territorio, aperta e contendibile.
Questo obiettivo è ancora più importante in Sicilia, anche e soprattutto per le sfide che il Partito Democratico deve affrontare in questa regione. La crisi economica, sociale e politica che vive la Sicilia, va oltre le difficoltà economiche che stanno attraversando l'Italia e gli altri paesi europei stremati dall'austerity comunitaria. Nell'isola, come nelle altre regioni meridionali, la crisi è strutturale. Nasce prima della recessione nazionale e continuerà anche dopo la ripresa. Questa volta non basterà la ripresa dalla domanda nazionale o internazionale per rimettere in piedi una struttura economica regionale che di fatto è scomparsa. L'allarme della Svimez di un rischio deindustrializzazione per le regioni meridionali è l'ultimo dei segnali della fine di un modello per il Sud, quello dell'economia assistita, che ormai da anni stava rapidamente declinando e che con l'ultima crisi finanziaria è sostanzialmente arrivato al capolinea. Il modello basato su massicci trasferimenti di risorse pubbliche, che vedeva circa il 70% dei suoi occupati nelle amministrazioni pubbliche, ed il resto impiegato nei settori trainati dalle spese di questi occupati, edilizia e commercio, non è più compatibile con le regole delle istituzioni comunitarie e la crisi fiscale degli stati nazionali.
Va pensato e costruito un nuovo modello di sviluppo per le regioni meridionali basato su un economia competitiva che valorizzi le risorse che i territori del sud naturalmente possiedono. Nella competizione internazionale, se i territori dei paesi sviluppati vogliono concorrere tra loro mantenendo o migliorando i loro livelli di reddito pro-capite, non possono farlo cercando di produrre quello che altri paesi in via di sviluppo realizzano con un costo del lavoro molto più ridotto. La strada da seguire è quella di sfruttare le risorse proprie non riproducibili in altri contesti, quelle naturali ed identitarie, che rappresentano l'unica materia prima in regime di monopolio per i territori meridionali. E di conseguenza pensare una struttura economica basata su nuovi settori produttivi a valore aggiunto elevato come quelli energetico, culturale e turistico di qualità.
Pertanto per chi fa politica al Sud la sfida è individuare un nuovo modello di sviluppo per il proprio territorio. Una sfida molto complessa che ha bisogno di un partito ed una classe dirigente all'altezza. Un partito con una robusta elaborazione politica in grado di dettare l'agenda politica con un ruolo attivo nei confronti del governo Crocetta. E soprattutto un partito che riprenda la buona abitudine della discussione interna e si presenti davanti l'esecutivo regionale unito ed autorevole. Se un Presidente della Regione decide da solo è perché la maggioranza che lo sostiene, e nel caso siciliano il Partito Democratico, si presenta spaccata e senza una chiara proposta politica.
Ma per avere un partito forte, autorevole e con una classe dirigente competente bisogna ricostruire il PD siciliano, modificando radicalmente la pratica politica che lo ha caratterizzato da quando è nato. Innanzitutto va strutturato nel territorio rafforzando la propria presenza politica e cercando di ricostruire con gli elettori un rapporto che permetta di coglierne le istanze politiche. Poi va ripristinata effettivamente la democrazia interna: non è accettabile nella nostra cultura politica il partito del capo, o dei capi. Purtroppo nella nostra regione è prevalso tale modello, quello del partito istituzionale, dove a decidere sono esclusivamente i deputati, con la ratifica successiva degli organismi dirigenti. Va separata la rappresentanza istituzionale dalla segreteria di partito, ripristinando una dialettica tra i due livelli che consenta una più efficace democrazia interna.
Infine è importante un ultimo passaggio. Va siglato da tutte le componenti politiche un patto generazionale che dia spazio finalmente ad una generazione di giovani dirigenti competenti e maturi per prendersi la responsabilità di guidare il Partito Democratico in questo processo di ricostruzione. Non si tratta solo di "rottamare" qualche anziano dirigente per sostituirlo con un suo giovane fedelissimo. Va promossa una nuova leva di dirigenti, fuori dalla gestione politica degli ultimi anni, che sia in grado di ricomporre le antiche fratture del nostro partito in una sintesi unitaria e che riesca ad intercettare meglio l'esigenza di cambiamento che l'elettorato di centro sinistra, e la società siciliana complessivamente, ci chiede. 

Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo


Un "modello Sicilia" anche per lo sviluppo

Piero David

Dopo i primi mesi dedicati più alla campagna elettorale che ai problemi della Sicilia, adesso per il Presidente Crocetta, i suoi assessori ed i parlamentari regionali, inizia il percorso per fare della nostra regione un "modello Sicilia" in termini di ripresa economica ed occupazionale. Le sfide che si troverà affrontare il nuovo Presidente, infatti, sono di carattere storico e strutturale come lo è stata la sua vittoria. Nella difficile fase economica che sta attraversando l'Italia, al Sud ed in Sicilia c'è una crisi nella crisi. Che non è solo nei numeri e nella storia drammatica dei disoccupati, dei nuovi poveri o delle crisi aziendali.
Alla difficile congiuntura finanziaria che negli ultimi quattro anni ha bloccato il sistema economico mondiale, in Sicilia, come in altre regioni del Mezzogiorno, si aggiunge la fine di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il Sud dagli anni '80: quello basato sull'amministrazione pubblica come unica grande azienda dell'economia regionale, che con i suoi trasferimenti sosteneva una domanda continua per i settori delle costruzioni e del commercio. Con la crisi fiscale dello Stato e con la conseguente riduzione di trasferimenti, tale modello sta tramontando rapidamente e definitivamente. Senza che, al momento, se ne intraveda chiaramente un altro.
Non essendo intervenuti per tempo nel rafforzare l'industria manifatturiera regionale - ad esempio, con infrastrutture che ne migliorassero la produttività - si assiste adesso (come ci conferma la Svimez nell'ultimo Rapporto) ad una profonda e continua deindustrializzazione dell'isola. L'apparato industriale siciliano, nato tra gli anni '70 e '80 grazie agli ingenti trasferimenti dello Stato, non riesce ad adeguarsi alla competizione dei mercati internazionali. Il tasso di industrializzazione in Sicilia è la metà di quello medio europeo, ed un terzo di quello di paesi come la Polonia e la Romania. Il settore manifatturiero è stato quello più colpito: negli ultimi quindici anni si sono ridotte di oltre il 20% le industrie estrattive, del 41% le imprese di produzione di metalli, del 25% le industrie tessili, del 32,5% le attività di confezionamento di abbigliamento, del 40,7% le imprese di lavorazioni delle pelli, del 32,7% le industrie di mobili.
E così anche per il settore agricolo si impone la necessità di ripensare il modello di impresa finora prevalente.  Una classe di imprenditori agricoli (per due terzi vecchia e poco istruita) ha basato per molti anni la propria attività su coltivazioni intensive e contributi europei. Tale atteggiamento ha disincentivato le innovazioni di prodotto e di processo necessarie per rendere redditizia l'attività. Con l'apertura al libero scambio con i paesi del Mediterraneo (l'accordo tra l'UE ed il Marocco del febbraio di quest'anno è solo l'inizio di un processo già stabilito) questo modello sempre meno riuscirà a competere con i prezzi ed i salari dei paesi emergenti. Va riconsiderato, pertanto, il modello di impresa agricola, con figure di imprenditori giovani e qualificati, ristrutturandola in maniera moderna e multifunzionale: incentivando le produzioni agricole di qualità, la produzione di energia, la valorizzazione e la manutenzione del territorio, sostenendo le filiere delle produzioni locali e la vendita diretta.
Nel settore servizi, quello che occupa la maggior parte dei siciliani, se da una parte si intravede una crescita delle attività legate alla filiera turistica-ricreativa e dei servizi alla persona, dall'altra va segnalata la tendenza nell'ultimo decennio delle regioni meridionali a specializzarsi nei settori a minore valore aggiunto: commercio al dettaglio, agenzie immobiliari e finanziarie, call-center. Tutte attività dove la retribuzione, frutto di contratti precari legati ai risultati, spesso non supera le due euro l'ora (anche 75 centesimi in alcuni casi): una forma postmoderna di schiavitù. Se in Sicilia non è scoppiata una rivolta sociale, come in Grecia o in Spagna, è solo perché esiste ancora una forte rete sociale di sostegno, la flexicurity familiare, che compensa l'assenza di strumenti di sostegno al reddito universali come negli altri paesi europei.
In sostanza, una volta entrata in crisi il modello basato sull'economia assistita dai trasferimenti statali, l'economia della Sicilia si è sostanzialmente fermata, in attesa di una nuova prospettiva ancora da individuare.
Quali interventi adottare per ripartire? Innanzitutto va pensata una strategia per lo sviluppo che, nel breve periodo, faccia ripartire gli investimenti pubblici. Chi pensa, in fase di austerity, che il mercato da solo possa trovare la strada più adeguata per lo sviluppo, non tiene conto che i nostri competitor sono già ora più infrastrutturati di noi, e che senza adeguate risorse statali il passaggio da un'economia assistita ad un'economia di mercato può compromettere le fondamenta di qualsiasi modello di sviluppo: la disoccupazione di lungo periodo e l'emigrazione di giovani qualificati, se non interrotte, ridurranno ancora di più lo stock di capitale umano presente nella regione pregiudicando la competitività futura di tutta l'area.
Inoltre, aspetto poco sottolineato, va chiarito che per quanto riguarda la Sicilia e le altre regioni dell'obiettivo Convergenza le risorse per gli investimenti pubblici ci sono: circa 4 miliardi di fondi strutturali ancora devono essere impegnati nella nostra regione. A questi si aggiungono le risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione (gli ex Fas) ed i programmi di assistenza tecnica e finanziaria allo sviluppo (Jasper, Jeremie e Jessica) che, all'interno di una strategia coerente e concertata, possono rappresentare le risorse immediate per far ripartire l'economia siciliana. A condizione però il governo nazionale faccia la sua parte introducendo una deroga al Patto di stabilità interno (altrimenti i soldi non possono essere spesi) sia per le risorse di cofinanziamento dei fondi strutturali, che per quelle di provenienza nazionale, e che il nuovo governo regionale si impegni a concentrarle sulle infrastrutture materiali (strade, ferrovie, scuole, riqualificazione ambientale) e immateriali (conoscenza - istruzione, formazione, ricerca) fondamentali per lo sviluppo.
Infine, cercando di recuperare la capacità della politica di guardare lontano, va pensata una strategia di sviluppo per la Sicilia, ed in generale per le regioni del Mezzogiorno, che vada verso una specializzazione produttiva dei territori meridionali nei settori ad elevato valore aggiunto (energia, industria culturale, risorse ambientali, turismo di qualità, produzioni locali), unica condizione per competere nel mercato internazionale non su prezzi e salari, ma valorizzando risorse proprie non riproducibili in altri contesti.

Una sfida ambiziosa e difficile per il nuovo Presidente della Regione Siciliana. 
Ma con la quale, non solo la politica, ma tutta la società siciliana sarà costretta a misurarsi.

Dov’è finita la politica regionale unitaria?



  • UN QUADRO STRATEGICO DI SVILUPPO

La crescita dell’economia italiana è strettamente legata allo sviluppo delle Regioni meridionali e al recupero dei divari territoriali in termini di Pil, occupazione e infrastrutture. Il Quadro strategico nazionale del 2007 prevedeva una politica regionale di sviluppo destinata in modo specifico ai territori con squilibri economici e sociali. Poi è scoppiata la crisi. E per il Sud si sono ridotte non solo le risorse aggiuntive, ma anche quelle ordinarie. Rendendo difficile quell’inversione di tendenza indicata dalle proiezioni programmatiche del governo.
La crescita invocata dell’economia italiana è senza dubbio strettamente legata allo sviluppo delle Regioni meridionali e al recupero dei divari territoriali in termini di Pil, occupazione e infrastrutture. Con un Mezzogiorno a bassi livelli di produzione, anche se il centro-nord crescesse a tassi “europei”, il Pil nazionale rimarrebbe sempre intorno alla sua media degli ultimi dieci anni: poco sopra lo zero (0,2 per cento). (1)

Per accelerare i tassi di crescita delle regioni meridionali, nel 2007, in coincidenza con il ciclo di programmazione dei fondi strutturali 2007-2013, si stabilì di adottare una strategia di sviluppo che, per la prima volta, vedeva confluire nella stessa programmazione tutte le risorse destinate allo sviluppo delle aree “sottoutilizzate”: fondi comunitari, quote di cofinanziamento nazionale e risorse aggiuntive nazionali. (2) In totale, 124,7 miliardi di euro (60,3 di fondi strutturali e 64,4 di Fas), che nei successivi sette anni dovevano finanziare un’unica strategia di sviluppo per il Mezzogiorno, indicata nel Quadro strategico nazionale. (3)
Un documento, questo, nato dal processo partenariale che ha coinvolto comuni, province, Regioni e amministrazioni centrali nella definizione di scelte strategiche, priorità di intervento e modalità attuative della spesa per lo sviluppo. Tale approccio, definito politica regionale unitaria, aveva come “precondizioni per la sua stessa efficacia” l’intenzionalità dell’obiettivo territoriale e l’aggiuntività delle risorse. (4)
In sostanza, a differenza delle politiche ordinarie, che sono di regola orizzontali, la politica regionale di sviluppo sarebbe dovuta risultare destinata specificatamente a quei territori che presentavano squilibri economici e sociali. E per essere efficace, cioè per raggiungere l’obiettivo di ridurre i divari, le risorse impiegate avrebbero avuto carattere di distinzione e aggiuntività rispetto a quelle ordinarie. In base a queste “precondizioni” la ripartizione delle spese in conto capitale della politica regionale unitaria (la spesa aggiuntiva) sarebbe dovuta essere l’85 per cento per il Sud e il 15 per cento per il Centro-Nord, in modo che la quota totale delle spese in conto capitale (ordinarie più aggiuntive) per il Mezzogiorno sul totale nazionale avrebbe dovuto crescere fino al 45 per cento.
Se questo era l’impianto strategico nel 2007, la crisi economica ha modificato tutta l’impostazione finanziaria della politica regionale unitaria. La figura 1, che riporta la percentuale di spesa in conto capitale nelle Regioni meridionali sul totale nazionale, evidenzia come dal 2009 questa strategia sia sostanzialmente compromessa. La quota di spesa in conto capitale per il Sud è diminuita dal 35,4 al 31,2 per cento. In valore assoluto si è passati dai 22,4 miliardi investiti nelle regioni meridionali nel 2009 ai 15,1 miliardi del 2011.

A ridursi sono state non solo le risorse aggiuntive nazionali (i Fas), utilizzate in chiave anticiclica per altri interventi su tutto il territorio nazionale, ma anche le risorse ordinarie, la cui quota destinata al Mezzogiorno sul totale è passata dal 26,8 per cento del 2009 al 18,8 per cento del 2011 (figura 2), contravvenendo ad una delle “precondizioni” essenziali della politica regionale unitaria. Anche il Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno, presentato a Roma il 26 settembre, sottolinea come negli ultimi anni la strategia complessiva volta al riequilibrio economico, sociale e territoriale delle regioni meridionali sia completamente venuta meno, “essendo le risorse ordinarie un vero e proprio buco nero nello sviluppo del Mezzogiorno”. (5)



In sostanza, come nel precedente ciclo di programmazione, le risorse aggiuntive stanno sostituendo i tagli di quelle ordinarie, compromettendo di fatto l’efficacia della politica regionale unitaria. Ed è, infine, poco verosimile aspettarsi l’inversione di tendenza prevista dalle proiezioni programmatiche del governo (vedi figura 1), legata alla spesa residua dei fondi strutturali. Senza una variazione delle norme sul Patto di stabilità interno, i periodi necessari per la spesa supereranno senza dubbio il 2015.
(1) Nel decennio 2001-2010 l’Italia ha realizzato la peggiore performance produttiva tra tutti i paesi dell’Unione Europea, con un tasso medio annuo di aumento del Pil di appena lo 0,2 per cento, a fronte dell’1,1 per cento rilevato per l’area dell’euro (Uem) – Rapporto annuale Istat 2010, Roma 23 maggio 2011.
(2) Legge 296 del 2006 (Finanziaria 2007), art. 1 commi 863-866.
(3) Previsto formalmente dall’art. 27 del regolamento generale sui Fondi strutturali europei.
(4) Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013, ministero dello Sviluppo economico, Dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione, giugno 2007, pag. VII.
(5) Rapporto Svimez 2012 sull’economia del Mezzogiorno, Introduzione e sintesi, pag. 23, Il Mulino 2012.

mercoledì 22 maggio 2013

Preferenza di genere o voto di mafia?


    Il sistema della doppia preferenza di genere, previsto dalla legge elettorale siciliana, faciliterà il controllo del voto esercitato da Cosa Nostra? Il modello di voto di scambio è ormai consolidato e non subirà sostanziali modificazioni. La creazione di aspettative di vantaggio negli elettori.

I RISCHI DELLA DOPPIA PREFERENZA
La cosiddetta doppia preferenza di genere, introdotta nella legge elettorale siciliana per le elezioni comunali e provinciali, sull’esempio della Campania, agevolerà forme di scambio e controllo del voto, come qualche forza politica (M5S) sospetta? Potrebbe tradursi, come paventano alcuni, in una facilitazione alle cosche mafiose per organizzare espressioni di consenso di massa nei territori caratterizzati dalla loro presenza attiva? C’è il pericolo di una eterogenesi dei fini per quanto riguarda questa norma? I dubbi, polemicamente espressi, emergono in una Sicilia dove nelle elezioni alla Camera si è registrato un tasso di astensione pari al 37 per cento e dove il M5S ha ottenuto il 34 per cento dei consensi. Quasi si fosse assistito a un salto di paradigma rispetto al voto “controllato” e si rendesse ora necessaria l’introduzione di strumenti utili per evitare eccessiva libertà di voto.
Proviamo a rispondere agli interrogativi, prima di tutto precisando le modalità del doppio voto di genere. Così come è stato introdotto, permette di esprimere non una, ma due preferenze, purché differenziate per genere.
Come potrebbe configurarsi, dunque, attraverso la doppia preferenza, un modello di voto di scambio o, il che è sostanzialmente simile, di controllo del voto? Se il candidato A (maschio o femmina che sia) impone ai suoi elettori di far seguire al suo nome alternativamente i candidati B, C, D, E (maschi o femmine che siano), distribuendo le “doppiette” per singoli seggi, avrà una prova per accertare se il suo “consiglio” (richiesto o imposto che sia) è stato seguito. Il passaggio da una sola preferenza a preferenze plurime di per sé costituisce una sorta di “visibilità” del voto, come del resto le esperienze passate (cinquine, quaterne, terne con ambi) hanno dimostrato. (1)Le precauzioni suggerite per disinnescare il controllo sembrano tutte sostanzialmente eludibili. L’omissione della lettura ad alta voce del secondo voto, se nullo, per esempio, non evita che comunque sia, almeno dieci persone possano “vedere” quel voto. Qualcuno, in sede di dibattito sulla norma, aveva chiesto di non scrutinare i voti nei singoli seggi, ma in un’unica sede. Così facendo, però, si sarebbe persa la possibilità di verificare irregolarità compiute nei singoli seggi. L’ipotesi dell’abolizione della privacy del voto con la rinunzia alla tradizionale cabina avrebbe inciso sulla gherminella di “provare” il proprio voto attraverso una foto con il cellulare, ma non avrebbe intaccato la potenzialità corruttrice del doppio voto.
UN MODELLO CONSOLIDATO
D’altra parte, il controllo del voto attraverso la doppia preferenza è applicabile alle consultazioni elettorali politiche o regionali, ma perde valore in quelle amministrative. Infatti, la frammentazione politica, la debolezza dei partiti tradizionali, la voglia di protagonismo della cosiddetta “società civile”, ha portato negli anni alla proliferazione di liste e candidati alle elezioni amministrative, col risultato di “spalmare” le preferenze su molti più nominativi e ridurre ilnumero di preferenze ottenibili. In sostanza, un aspirante consigliere comunale difficilmente supera la decina di preferenze in un singolo seggio elettorale (che conta mediamente mille elettori), riuscendo pertanto a controllare il voto senza “doppiette” o “terzine”.
Secondo, esiste davvero il rischio che con le doppie preferenze di genere si permetta alla mafia di stabilire reti e filiere di espressione di voto a favore di singoli candidati sulla base di rapporti di reciproci interessi?
Le ultime inchieste in Sicilia confermano che la mafia tiene pacchetti di voti in dotazione. Il controllo del territorio porta Cosa Nostra a stringere legami di interesse o di sottomissione o anche familistici con i politici. I voti orientati dai boss sono funzionali perché possono determinare la vittoria di un candidato su un altro. La doppia preferenza di genere inciderà poco su questo sistema, agevolato dalla scarsa efficacia della normativa sul voto di scambio. (2) In sostanza, oggi, se la mafia vuole determinare la composizione di un organo elettivo non ha bisogno del voto di genere per raggiungere il suo obiettivo. (3)Proviamo a tirare qualche conclusione. La nostra tesi è che in Sicilia sia prevalente da tempo un modello consolidato di voto di scambio (senza “colore” e quindi facilmente trasmigrabile da un partito all’altro) che nessuna precauzione potrà annullare. Per la semplice ragione che in questo voto confluiscono e si fondono interessi da parte del “votato” e del “votante” non conflittuali, ma addirittura sinergici. Il termine “voto di scambio” è di ampia declinazione e difficilmente “destrutturabile”, se non in termini di protesta contro promesse non mantenute. Il che paradossalmente, a ben vedere, è sempre voto di scambio seppure con termini rovesciati.
Possiamo dunque temere che il doppio voto di genere sia stato introdotto con il maligno scopo di prevedere forme di controllo contro aspetti inconsueti di “votanti al mare”? Ci sembra una ipotesi paradossale, ma al tempo stesso serve ricordare come in Sicilia le distorsioni del sistema democratico dovute al prevalere del clientelismo o del condizionamento mafioso finiscano col gettare ombre su qualunque intervento sulla tipologia di espressione del voto. Più banalmente: la doppia preferenza potrebbe ora offrire maggiore efficacia a sistemi di controllo del voto. Ma rispetto all’esperienza comune non sembrano variazioni dirompenti.
In Sicilia, tra astensione e preferenze al M5S, si è verificata una sistematica evasione dal voto di scambio “personalizzato”. Ma la prossima volta, basterà parlare di reddito di cittadinanza e di restituzione dell’Imu (e lo faranno tutti i partiti) per reintrodurre il voto personalizzato, con o senza ricorso al trucco della preferenza di genere. Per contenere il voto di protesta espresso dai movimenti, l’esperienza consiglierà infatti ai partiti una maggiore concentrazione su offerte con contenuti simil-clientelari, capaci di creare subito negli elettori aspettative di vantaggio. Resta semmai da osservare che il doppio voto di genere, se non è accompagnato da liste composte al 50 per cento da candidate donne, finisce con l’essere un omaggio di genere più che il riconoscimento di un diritto.
 (1) La legge elettorale promulgata in Italia nel 1946 per le elezioni legislative prevedeva la possibilità di esprimere fino a quattro voti di preferenza, scrivendo sulla scheda elettorale i cognomi dei candidati prescelti oppure i loro numeri di lista. Le molteplici combinazioni dell’ordine della quaterna,  spesso trasformata in cinquina, con l’ultima preferenza annullata, rendeva possibile un controllo quasi capillare del voto. Un referendum (1991) ha modificato la legge consentendo un solo voto di preferenza. Nel 1994 venne varata una nuova legge elettorale che eliminò il voto di preferenza introducendo liste bloccate. Eliminazione confermata da un’ulteriore legge (2005). Il voto di preferenza è invece previsto dai sistemi elettorali usati per le elezioni comunali, regionali ed europee. Val la pena annotare che la possibilità di esprimere una quaterna di preferenze poteva dar luogo a ventiquattro combinazioni (sei per una terna). Una cinquina, con l’ultima preferenza annullata, permetteva centoventi combinazioni.
(2) La norma in vigore riconosce infatti il voto di scambio solo nel caso di pagamento in denaro (e non di qualsivoglia utilità come viene invocato da più parti). In realtà, il reato non si caratterizza solo per la richiesta di soldi ai politici. La mafia utilizza il voto di scambio come investimento, come accumulazione di potere. Si veda “Voto di scambio. Modificare la legge contro l’intreccio tra boss e politici”, intervista a F. Messineo a cura di V. Lucentini, Giornale di Sicilia, 9 aprile 2013.
(3) Val la pena ricordare che la Sicilia ha raggiunto nel marzo 2013 il singolare record di ben otto comuni sciolti negli ultimi anni, con un exploit legato principalmente agli scioglimenti del 2012 (cinque).